Il pozzo dell’eternità

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Nella sua mirabile Storia dell’Eternità Borges descrisse due sogni “successivi e ostili”, uno, “quello realista, che brama con strano amore i quieti archetipi delle creature; l’altro, quello nominalista, che nega la verità degli archetipi e vuole raccogliere in un solo secondo i particolari dell’universo” (J. Borges, Storia dell’Eternità, in: Tutte le opere, Mondadori, 1984, vol. I, p. 539). Da una parte l’eternità riguarderebbe così solo le forme universali, l’“immobile e terribile museo degli archetipi platonici”, un’astrattezza che finisce per confondersi con un’asettica povertà rispetto alla varietà del mondo; dall’altra, inaugurata dalla soluzione d’Ireneo al mistero della Trinità, avrebbe finito per distaccarsi dalla visione alessandrina divenendo uno degli attributi della mente divina in quanto “interminabilis vitae tota et perfecta possessio”. Secondo la definizione di Boezio ricordata da Borges fu cioè compendiata dalla facoltà di possedere e registrare uno intelligenti actu “non soltanto tutti gli istanti di questo gremito mondo ma anche quelli che avrebbero il loro posto se il più evanescente di essi venisse cambiato – e quelli impossibili anche” (Ibid. p. 537).
La distinzione ripropone in termini non dissimili (assimilando gli archetipi platonici al tedio d’un perdurare infinito) la consumata partizione fra l’eternità concepita come trascorrere indefinito – quella del mondo eracliteo o aristotelico (anche se l’αιών di quest’ultimo si distingue tuttavia dall’eternità delle sostanze immobili, motori dei cieli, eterne in quanto fuori dal tempo, τά αεί όντα) – e quella intesa invece come intemporalità, la menzionata facoltà di trattenere nella sua totalità la pienezza d’una durata infinita, quale quella dell’universo, che di per sé non potrebbe certo comprendere e abbracciare se stessa.
La disamina borgesiana ha tuttavia il pregio di rimarcare come tale questione sia inevitabilmente da porsi in relazione alla realtà terrena e al suo tempo; una risposta al modo migliore di intenderla sembra così potersi ricavare proprio dalla maniera in cui il suo interrogativo si è nel corso dei secoli intrecciato al tema della creazione del mondo e delle soluzioni offerte a tale sfuggente e scottante dilemma.
Se con Agostino ci si impegnò a risolvere il problema ammettendo che la sua genesi sia pure quella del tempo e dunque l’eternità vada intesa in quanto intemporalità piuttosto che come durata illimitata (analogamente l’astrofisica si esime da quesiti metafisici intorno al “prima” del “Big bang”), ciò non valse a sciogliere il nodo stringente che la Scolastica si trovò a dovere sbrogliare nel momento in cui acquisì la dottrina aristotelica in sede teologica. La fortunata descrizione di Dio come atto puro palesò ben presto l’ardua impresa di combinare la meccanica di Aristotele con la fede: una potenza divina eternamente attualizzata risulta inconcepibile per chi voglia intendere la creazione ex nihilo e nel tempo. Se la prima fosse sempre congiunta al proprio atto non solo la creazione non potrebbe che essere coeterna, ma, essendo tutte le potenzialità di Dio realizzate da sempre, il suo atto dovrebbe pure dirsi necessario, negandosi altresì qualsivoglia agire volontario dell’ente supremo (d’altro canto se la potenza e l’atto divino non fossero congiunti, si dovrebbe ammettere, oltre all’imperfezione d’una potenza non realizzata, l’eresia d’una sua mutevolezza). Ecco allora profilarsi sulla parete dell’eternità l’ombra della lucerna emanatista di Plotino, un mondo da concepirsi ab aeterno creato e per di più, conseguentemente, nemmeno ex nihilo, bensì come effetto ancora interno alla sua causa. Uno dei tentativi più diffusi per risolvere tale scorno fu la distinzione posta da Erveo Natale fra un’attività divina “in sé” ed una “ad extra”: in Dio, internamente, la creazione è eterna, mentre nella produzione effettiva del mondo ha un inizio nel tempo. La disgiunzione, forse non proprio rigorosa per un aristotelico, introdusse la petizione, scolasticamente inappuntabile, di un discernimento secundum rationem nel cuore della semplicità divina: secundum rem Dio agisce da sempre, ma secundum rationem sarebbe tuttavia possibile reperire uno scarto fra l’intelletto, la volontà e l’attuazione di ciò che l’Onnipotente ha voluto e pensato, un interstizio con cui incrinare l’eternità e lasciarvi diramare la crepa del tempo mondano e del suo inizio. Se la distinzione  diverrà la scappatoia della Scolastica per catturare la sfinge che in un occhio sigilla l’eterno e nell’altro la creazione, alla lunga lo stesso raffinatissimo acuminarsi del metodo (si pensi a tutto il chiarimento terminologico sul concetto di omni-potentia e potentia defectiva, per cui è forse sufficiente la pleonastica sentenza di Gualtieri di Bruges: “ se tu avessi il dono dell’ubiquità non avresti bisogno di correre”), finirà per delegittimarsi da solo, giungendo sino agli esiti scandalosi dei Pelagiani del 1330-1340 sostenitori addirittura di una temporalità dell’agire divino.  Lo  stesso rigore teologico concluderà cosi per un sostanziale abbandono dell’improbo sforzo di conciliare fede e aristotelismo; perfino Tommaso e Scoto riconobbero di non potere tagliare il nodo, dichiarando anch’essi l’impossibilità di asserire se la creazione possa rigorosamente concedersi ab aeterno o nel tempo.
Il breve resoconto dello scontro fra un’inattingibile e siderale eternità, capace di raggelare lo stesso arbitrio divino, e la vivacità del mondo ricordato da Borges, mi rammenta tuttavia quel che proprio il grande scrittore argentino consegnò ad una sua mirabile nota: una prospettiva che giusto dal tema della creazione pare aprire una terza inaudita alternativa alle due concezioni dell’eternità. A metà ’800 lo zoologo Philip Henry Gosse formulò la bizzarra tesi di una eternità arrestata, o meglio di “un tempo rigorosamente causale, infinito, che è stato interrotto da un atto passato: la Creazione” (il suo primo istante comporterebbe cioè non solo un infinito futuro ma anche un infinito passato). In questo modo, come ricorda Borges, si dovrebbe parlare di “un passato ipotetico, naturalmente, ma minuzioso e fatale. Sorge Adamo e i suoi denti e il suo scheletro hanno 33 anni; sorge Adamo (scrive Edmund Gosse) e ostenta un ombelico, sebbene nessun cordone ombelicale l’abbia legato a una madre” (Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano 1963, p. 31). Se così Gosse propose alla scienza dell’epoca la strabiliante tesi della presenza di scheletri di glittodonti, ma dell’inesistenza degli stessi, il suo esito più proficuo non sarebbe forse quello di postulare l’eternità come effetto retroattivo della creazione, di una comparsa cioè che si porterebbe con sé anche tutto il tempo ad essa precedente (si vedano su questo le considerazioni svolte nell’articolo: l’avventura dell’occhio)?
A volere legittimare l’idea di una creazione ab aeterno lo stesso Agostino scrisse: “se un piede è stato sempre, dall’eternità, nella polvere, sempre ci sarà stata, sotto di esso, l’orma, indubitabilmente prodotta dal piede calcante: allo stesso modo il mondo ci fu sempre perché ci fu sempre chi lo creò” (De Civitate Dei, X, 31). L’argomento gossiano, tuttavia, sottopone questa immagine alla torsione per cui non sarebbe più l’orma (il mondo) ad accompagnare eternamente il piede (la volontà divina), ma al contrario la comparsa dell’orma (la creazione) a generare l’aevum, la durata ad essa precedente, a costringerci cioè ad ammettere il suo piede sempiterno (l’intemporale volere di Dio).
L’eternità non sarebbe così né un presente imperituro né una durata illimitata, ma qualcosa che si pone al limite del tempo, come un fiore schiuso sulla grata del suo confine , sul suo sfondamento all’indietro o in avanti… Ciò che sarà stato in un passato irrecuperabile, traccia dissepolta in un deserto d’evi, dove il suo pozzo , una volta scoperchiato nell’oasi della creazione, lascerà sgorgare l’acqua del divenire che vi stava nel fondo ancora prima di essere scavato; non è così che nella polvere cosmica i fossili delle onde elettromagnetiche lasceranno forse baluginare il vuoto e le fluttuazioni quantomeccaniche anteriori al Big bang che le produsse? [1]. Un pozzo che a differenza di quello di San Patrizio non metterà in contatto con l’Erebo dell’oltremondo ma con l’inferno dell’oltretempo (si veda La delizia dell’inferno). O forse l’eternità starà alla fine dei tempi, quando essi saranno annichiliti da un giudizio universale o dalla ekpyrosis di una conflagrazione cosmica (come l’assenza di origine era effetto retroattivo d’un inizio, la mancanza di termine sarà quello posteriore a una fine). Che poi ciò metta capo all’apocatastasi stoica, ad altra dottrina dei cicli o a nessuna di queste poco importa; forse si dovrà infine soggiungere qualcosa di ancora più sconcertante: ammettere che dal fiat lux della creazione, dal moto condensativo dell’Apeiron o da quello centrifugo del “Big bang” un’eternità [2], anzi una congerie di eternità, dovranno comunque trascorrere: se il tempo è davvero infinitamente divisibile, ogni suo suo lasso breve a piacere ne rappresenterà una (si veda La lettera infinita), e anche il tempo che occorrerà a una rosa per sbocciare sarà solamente la fragrante, inesauribile, promiscua avventura di un’altra eternità.

[1] Su un altro versante va altresì detto che all’ipotesi del “Big bang” contrasta la constatazione logica che un rimescolamento a caso di aminoacidi ha una probabilità di dar luogo a un insieme di enzimi efficiente inferiore a 10-40000; affinché possa avere avuto origine senza teleologie vitalistiche il miracolo materialistico dell’informazione contenuta nei sistemi biologici, si dovrebbe dunque assegnare all’universo una storia molto lunga, assai più dei 10-20 miliardi di anni massimi che le teorie del “Big bang” gli accreditano. Anche in questo senso dunque, la folgore astronomica della creazione invocherebbe un suo “tempo antecedente”.

[2] Quella ad esempio durevole, a partire da t0,  i 200 secondi necessari alla nucleosintesi di elio e deuterio con una Ec di 45 KeV.