La lettera infinita

Fu durante un uggioso pomeriggio d’inverno, passeggiando a ridosso delle botteghe affacciate sulle rive del naviglio, nascoste dalle foschie della sera, che la nostra attenzione venne attratta da un ferro battuto sporgente a bella posta sul muro d’un vecchio androne. La sua somiglianza con la più insigne delle lettere dell’alfabeto greco ci trascinò nella vivace e strabiliante discussione che questa nota intende ripercorrere (pur avendo contezza dei nostri argomenti, il semplice fatto di esporli ci suscitò lo stesso stupore di chi li ascolti per la prima volta).
Il mio interlocutore mi fece notare come nelle infinite cifre di π qualsiasi numero o sequenza  si voglia supporre prima o poi vi sarebbe trovata, a patto ovviamente di disporre dell’eternità necessaria a raggiungerli: così sarebbe per tutte le date di nascita e morte, i civici dei portoni, i numeri di telefono, i codici di tutti i computers del mondo, i risultati di tutte le equazioni della matematica e via dicendo. Ancora più sorprendentemente, continuò, trasformando con una semplice crittografia le cifre in lettere, in π risulterebbe scritto tutto lo scibile dell’umanità: l’Antico Testamento, l’Odissea, l’Etica nicomachea, i Vangeli, la Divina Commedia, Re Lear, la ricetta dell’anatra all’arancia o del pudding, i procedimenti  per la fermentazione del luppolo, le tecniche di navigazione e i trattati di volo, il Kamasutra, la minuziosa descrizione di ogni porcellana di Sèvres, dei più struggenti paesaggi e tramonti mai contemplati, dei lineamenti d’ogni donna di cui sia stato cantato l’amore, insomma tutti i pensieri della vita d’ogni singolo uomo, queste stesse considerazioni, la narrazione di quel che è accaduto dalla notte dei tempi, che sarà o che non potrà mai essere. Si chiese se vi fosse qualche significato in tutto questo, soggiungendo di non averne la minima idea, ma in che in π vi sarebbe stata anche la risposta a tale quesito.
Certo, gli replicai, forse il responso non è che questo: nell’infinità di π è contenuto lo stesso pensiero di Dio.  Con l’unico guaio che nel famigerato “libro di sabbia” (ovvero nel labirinto dell’infinito), anche la sua mente sdipanata da una stringa non ci esimerà da un peccato esiziale: tutto quello che potrebbe esservi letto risulterà inesorabilmente precario se non immediatamente smarrito. Non solo non si potrà mai ritrovare la stessa pagina, ma anche ammettendo che ciò fosse praticabile, la vista, una volta decifrati, potrebbe subito offuscarsi su ogni sua riga, parola, numero o lettera.
Sì, il manto dell’infinità non può che rivestirci con la cappa d’una apatica dimenticanza; anche gli immortali del racconto di Borges, sorpresi a balbettare qualche frammento di Omero, quasi fosse il ricordo d’una propria invenzione, non scontano forse in quel tedio la necessità d’un tempo interminabile, quella di vivere il destino di ogni uomo?  “Tutto, tra i mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco di altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c’è cosa che non sia come perduta fra infaticabili specchi” (Borges, L’aleph).
Si potrebbe tuttavia contestare che se dopo la virgola si rinverrà con certezza una cifra al quinto posto ed un’altra al sesto, ciò varrà per l’n-esimo; che dunque il sospetto di non poterne mai ritrovare una parte – ovvero una pagina del libro –, come per quelle sinora rinvenute sarebbe semplicemente smentito da un algoritmo, quello che potrebbe indefinitamente progredire nella loro ardua ma possibile scoperta. Immaginando un calcolatore del futuro dalla memoria illimitata, equiparando in un certo senso due facoltà infinite, qualcuno potrebbe spingersi ad affermare che quella dell’elaboratore finirebbe per avvicinarsi asintoticamente alla serie di π (o all’intelletto divino), e persino a sfogliarla in una maniera in fondo bastante per la misera finitudine della nostra mente. Ma se ci venisse chiesto di recuperare un punto nell’immensità dell’universo (se π fosse disposto su una interminabile striscia si perderebbe giusto nelle sue propaggini), non sarebbe esso del tutto introvabile? Nell’infinità non può esservi posizione alcuna: “se lo spazio è infinito, noi siamo in qualsiasi punto dello spazio. Se il tempo è infinito, siamo in qualsiasi punto del tempo” (Borges, Discussioni, “La sfera di Pascal”). Non v’è riferimento possibile se non con la finzione di un ritaglio che ci consenta di restare in una sua porziuncola: quella che ci permetta di fissare il Big Bang o la nascita di Cristo quale redenzione d’un evento spartiacque, la virgola del numero irrazionale quale cruna a cui annodare le prime insulse cifre (siano pure miliardi di miliardi di miliardi) che se ne possano intravedere. Supponiamo pure che miracolosamente, sotto lo sguardo torvo dell’eternità, un angelo ci trasporti in un dato punto della successione e ci consenta di ammirarvi il mistero della teodicea, la volontà divina circa il male del mondo.  Dal momento che non potrà mai esistere un algoritmo in grado di conoscere l’intera sequenza in atto e di restituircene, nel gioco d’un congegno matematico, un suo frammento a piacere, che quel luogo potrebbe dunque trovarsi a una distanza tale che la durata delle generazioni sinora esistite, moltiplicata per il numero di Eddington (la stima di tutti gli atomi dell’Universo), non basterebbe per poterne leggere le cifre precedenti,  come penseremmo di poterlo mai recuperare una volta che l’angelo ci riportasse indietro? L’abbaglio della calcolabilità sta infatti nella rassicurante ubbidienza d’un processo in potenza, nell’inganno d’un ragionamento che si arresti ogni volta all’orizzonte d’un pedaggio unitario, quasi che sopra di quello un aruspice potesse vergare la preveggenza nei cieli della matematica. Il fatto che tale infinita vastità abbia un inizio è quindi solo la bestemmia del ridicolo; parimenti il numero che potremmo mietere, per quanto inimmaginabile possa divenire in un portentoso calcolatore e per quanto indefinitamente si possa incrementarlo, continuerà sempre a non raggiungere nemmeno un tratto infinitesimo di quella sovrastante immensità. Tutte le sterminate cifre che saranno state raccolte resteranno sempre talmente irrisorie al cospetto di quella da rimpicciolire invece di accrescere quel computo, da condannarlo alla permanenza del macigno sulle braccia di Sisifo o alla soma dell’impensabile sul mulo del pensiero, da restituire ad un singultante balbettio qualunque cosa vi si possa scoprire. Chi può dire se entro il limite che l’umanità potrà guadagnare da qui alla fine dei tempi, vi scorreremo l’intero Amleto (invece di qualche sua modesta porzione mescolata alla formula del gesso e al numero delle piume nell’ala d’un piccione) o che ci avvicineremo alla rivelazione del segreto della morte, se oltre di esso continuerà sempre a resistere la stessa infinità? Questo è ciò che si dovrà allora replicare all’obiezione. Ogni serie che la fantasia immaginerà in un suo qualunque luogo, non potendolo circoscrivere né segnare con lo stilo dello spazio e del tempo, nel momento in cui volessimo rintracciarla si perderebbe in un’infinità di altre, in maniera in fondo non dissimile all’abisso che si apre continuamente fra due punti di una retta. Se infatti in quest’ordine illusorio del discreto (nell’insieme delle cifre di un numero irrazionale) considerassimo poi che si possa proiettare anche l’ombra antica e terribile del continuo, che fra due punti di quella stringa srotolata fra innumeri ammassi di galassie, soli e cinture gravitazionali, se ne possano a loro volta concepire di infiniti altri, ecco che in tal caso la voragine di tutti i testi, di tutti i pensieri, di tutti i numeri, di tutte le voci e tutti gli evi, ogni volta si riaprirebbe addirittura fra una lettera e l’altra, o meglio renderebbe impossibile già solo vedere una lettera dopo l’altra.
“Già –  mi rispose con un senso di consolante impotenza –  e pensare che in definitiva π non è a sua volta che un semplice minuscolo punto irrecuperabile fra da due altri prossimi a piacere” (a mo’ d’esempio fra 3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971 69399 37510 58209 74944 e 3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971 69399 37510 58209 74945…)”.
Come i tranquilli gorgheggi d’acqua ridosso le sponde, o le foglie trascinate dalla corrente sotto gli archi dei ponti, anche il flusso ozioso degli infiniti si perderà nel nostro rimpianto, fra le nebbie dei mattini.

Per una più completa, ricca e storicamente articolata discussione sull’Infinito, non senza il gusto del ricamo barocco,  si veda il mio contributo su http://www.filosofiacontemporanea.it

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