I confini dell’occhio

Da dove nasce l’occhio, se esso può vedere tutto tranne se stesso? Forse dall’acqua del cielo caduta nel suo pozzo profondo, circondato da un’iride di luna. Ma potrebbe esistere il cielo prima che qualcuno ne scorga l’accondiscendenza del segreto? O forse, come vuole il filosofo, senza il primo oculo di libellula sul cui orizzonte si dilatò l’intero universo non sarebbe esistita tutta la storia antecedente, quella delle rocce soffiate dalla bocca dei vulcani sulla nudità della terra, sangue del suo cuore sepolto e ancora troppo antico per destarvi la vita; quella dei primordiali oceani sciolti dalle nebbie sulle ferite del pianeta esanime, crivellato da un pianto di crateri; quella della Vita a poco a poco sussurrata fra i gangli informi delle cellule procariote (forse nate dall’amplesso d’un lampo annegato nel capriccio dell’onda), fra le trine delle meduse avvoltolate sulla pelle delle correnti, tra i ventagli delle alghe, ciglia sommerse che attendevano giusto l’arrivo del primo occhio per generarvi il guizzo e la figura del pesce. Causa della propria causa, a ridosso di sé trascinerebbe così l’intera storia del cosmo inorganico, le forze della natura, l’insieme delle sue oscure progressioni geologiche, tutte le spinte evolutive del Cambriano e dell’Ordoviciano sino alla sua epifania in seno al Paleozoico.
DSC00121D’altra parte lo zoologo ottocentesco Philip Henry Gosse formulò la tesi non dissimile di “un tempo rigorosamente causale e infinito, interrotto da un atto passato: la Creazione” (Borges, “La creazione e P. H. Gosse”, in Altre inquisizioni; il suo primo istante comporterebbe cioè non solo un infinito futuro ma anche un infinito passato). Un’altra maniera insomma di intendere un evento che all’improvviso esibisca tutta la catena causale ad esso anteriore, in forma di storia del mondo nel caso della retina schopenhaueriana, in sembianza di vestigia senza alcuna realtà corrispondente in quello della Creazione gossiana: “un passato ipotetico, naturalmente, ma minuzioso e fatale. Sorge Adamo e i suoi denti e il suo scheletro hanno 33 anni; sorge Adamo (scrive Edmund Gosse) e ostenta un ombelico [o un occhio, ndr], sebbene nessun cordone ombelicale l’abbia legato a una madre” (Ibid). Se dunque sulla scorta di tali principi egli propose alla scienza la tesi strabiliante della presenza di scheletri di glittodonti pur non essendone mai esistiti, la circostanza per cui alcuni rettili archeologici presentino un occhio sulla fronte, il sigillo dell’eternità in una pupilla di pietra, non starebbe singolarmente accostando proprio queste due opposte ma altrettanto vertiginose regressioni in un’anteriorità precedente (una volta ad affermarla, l’altra a negarla)? I fossili hanno davvero visto il loro passato o l’hanno sognato con noi?
Occhio! Diafana culla d’Eros e dei suoi spiriti infiammati che assaltano il forte dello sguardo, che attraverso le sue feritoie trafiggono l’anima altrui: occhio assalito e occhio assalitore separati dalla bertesca, dalla macchina d’assedio del cuore… Tanto cruciali nella ricerca d’un archetipo e nell’intreccio tra immortalità ed esistenza, da estendere il monito degli albori anche in una coda salvifica: come non vi sarebbe principio del mondo, senza di essi nemmeno continuerebbe a esistere e mantenersi il suo amabile sembiante: “ma la tua eterna estate non dovrà svanire/ né perdere possesso di quella bellezza che è tua,/ né la morte si vanterà che tu vaghi nella sua ombra,/ quando in versi eterni tu crescerai nel tempo./ Finché uomini respireranno o occhi vedranno,/ fin tanto vivrà questa poesia, e questa darà vita a te” (Shakespeare, Sonetti, XVIII, vv. 9-14).
Ecco allora la fucina dell’occhio, ancora vivido del fuoco di Prometeo, lanciare il ponte dello sguardo fra terra e cielo, creatura e bellezza, mente e sapere: occhi skakespeariani divenuti libri aperti, lustre icone dell’arte, commoventi arene di teatri in cui offrirci lo spettacolo del mondo.
Ma il suo dramma è in definitiva proprio questo: non potersi vedere, dovere sempre rispecchiare qualcosa d’altro, realtà effimera o eidetica, forme fatue o vaticinio d’amore, e mai potere attingere se stesso, né la genesi della propria visione.
L’occhio(del)sapere, prigioniero nello stesso triangolo di nembi che contorna il divino, sconta il risaputo regressus ad infinitum; così come si sa di pensare poiché si congettura qualcosa, egualmente si sa di vedere solo guardando delle realtà: “Dimmi, caro Bruto, puoi vedere la tua faccia? No, Cassio; perché l’occhio non vede se stesso se non di riflesso, attraverso altri oggetti” (Shakespeare, Giulio Cesare). Pretendere d’aspirare al pensiero del pensiero quanto alla visione della visione non potrebbe che meritare il corbascio di Gassendi: donde sapremmo di sapere? Occorrerebbe un altro pensiero, o un altro occhio, per pensare o vedere il primo e poi un terzo per il secondo, e poi un quarto per il terzo, e così via all’infinito.
Screenshot 2016-06-20 22.06.49Quando l’occhio presume di cogliersi non può che tagliare via se stesso come nella memorabile sequenza bunueliana di Un chien andalu, lì dove la lama del cinema (altra visione) ne incide, al pari delle nubi cenerognole sul volto della luna, il sanguinoso bulbo dell’origine; così la sua sclera brilla per un istante, fluttuante astro nella bambagia della sera, precipitando subito nella tenebra allorché lasci il posto all’oscurità del desiderio. Anche per Giulietta gli occhi potranno allora essere metafora delle stelle più belle, ma mai vedersi lassù, in un lampo di purezza, sul loro ovale d’argento.
Già! Non percepiremo mai il nostro viso, né le sue lacrime o un tenue sorriso; la loro restituzione in uno specchio non sarà che uno stratagemma  in cui ri-trarsi senza la vera spontaneità dell’espressione. Davanti al suo vetro cristallino o ci si abbandona al puro fatto di scrutarsi, o ci si ritroverà a sorprendersi in foro interno, a rintuzzarsi piuttosto nei propri pensieri perdendo di vista quel tale assai poco rassomigliante. O si scorge un’immagine altra o ci si scopre altri dall’immagine; o ci si ravvisa in quel rimando con una sorta di incosciente attonimento (lo stesso di Narciso), o si finisce per adocchiare distrattamente solo un fragile apparire in quel volto riflesso, la scia d’un’emozione balenata con tutto il ritardo che il pendolo dell’istante scandisce rispetto a un singulto del petto. Ecco ciò che basta a falsarne la comparsa in quella maschera posticcia, goffa ed estranea che ci osserva a un palmo di naso.
Altrettanto si dovrà naturalmente asserire di quanto alberga alle nostre spalle, del daimon della tragedia, di quel che, nascosto dal corpo, resta a tergo, del destino, dell’Inconscio che ci segue al pari d’un sicario o d’un’ombra non scorta. Forse è tale oscenità (l’ob-scenum in quanto esclusione dalla sobria scena della visione) a far sì che nella giostra del sogno, al pari della bocca, la parvenza dell’occhio sia spesso intesa quale simbolo del sesso muliebre, di uno sguardo  ripiegato nell’umore della carne. Forse per questa connessione alla fine dell’Histoire de l’œil non sarebbe potuto che rotolare nella sconcezza d’un crimine sacrilego; quello che lo estirpa (altra in-visibile evirazione del bene) dal volto ebbro del sacerdote, ucciso nell’amplesso con Giselle, per farlo poi schizzare con un gesto immondo, tornare verso l’impuro orifizio delle natiche, là dove la vista sarebbe proibita se non a costo di strapazzarla, di liquefarla nella sporca viscosità della sua brama: “la forma dell’occhio, secondo lei, era quella dell’uovo. Mi chiese, quando saremmo usciti, di rompere delle uova per aria, al sole, a colpi di rivoltella. La cosa mi sembrava impossibile, lei ne discusse, dandomi spassose motivazioni. Giocava allegramente con le parole, dicendo a volte rompere un occhio, a volte cavare un uovo, svolgendo ragionamenti insostenibili” (G. Bataille, Storia dell’occhio). Uno di questi potrebbe essere allora la volontà di strappare e trangugiare proprio l’uovo/occhio della creazione (quel che pende dalla pala di Piero de’ Franceschi), ovverosia lo sguardo che la inscena, divorandolo e frantumandolo nella bocca vorace delle pulsioni terrene, ricacciandolo nel loro ventre, liscio come una sclera ricoperta dalle ciglia del pudore, dalla resipiscenza d’Adamo ed Eva, dalla vista in cui spuntò il primo frutto interdetto.
DSC00122Non è quindi forse un caso che già il mito punisca vizi ed efferatezze ponendoli prima nella mollezza dell’occhio, ed emendandoli poi con la loro privazione, risarcimento ad una visione preclusa. Alcmena, madre di Eracle, strappò quelli presuntuosi di Euristeo dopo che questi tenne il grande eroe in schiavitù; Ecuba quelli avidi di Polimestore, assassino di Polidoro, suo unico figlio sopravvissuto alla caduta di Troia; per canzonarne l’innamoramento Tersite cavò quelli dell’amazzone Pentesilea, uccisa da Achille in combattimento, ma venne in seguito giustiziato dalla sua collera. È come se uno sguardo soppiantasse l’altro: l’occhio dell’orgoglio subentra a quello della boria, quello del dolore alla cupidigia, quello della giustizia si impone sull’avventatezza, l’amore nostalgico vi contempla la pietà nell’amore straziato. Il mito insegna tuttavia che gli occhi possano cavarsi anche per un beneficio. Lamia, punita da Era con la mancanza di sonno, viene ricompensata da Zeus con la possibilità di toglierseli a piacimento, di ritrovare sotto la cecità della volta il ristoro della notte perduta. L’anima del figlio di Laio si acquieta soltanto nel solco d’una cicatrice, ricoverata in una tregua precaria dal bagliore del rimorso, ma non dal suo suono: “potessi inchiodare fluire di voci, all’udito, farei di questa carne mia un’isola murata: ah non esiterei, avrei il mio nero senza suoni. Esilio dell’intelligenza, via dal male, è unica dolcezza” (Sofocle, Edipo re, 1384-1390).
La loro mancanza diventa il guadagno del riposo o di una percezione più pura, senza scomodi ed opachi intermediari, il raggiungimento di quella cecità profetica che, somigliando a Tiresia, sfiorando col suo bastone di ricordi un mondo d’ombre più nitide della luce, soltanto il poeta continuerà a vagheggiare. Ancora più potentemente il mito avrebbe allora dovuto offrirci l’immagine d’una loro infinità creatrice, d’uno sguardo totale che assuma anche quello del buio; ecco che il vantaggio di Argo diviene emblema, ben più di quello di Lamia, d’un inaudito destino, quello in cui proprio l’occhio avrebbe finito per sovvertire l’attitudine che ne ha fatto l’artefice della millenaria separazione fra luce e ombra, sonno e veglia, conscio e inconscio, soggetto e oggetto.
Se infatti il nostro senso, ricucito nel tessuto mondano, è al contempo vedente e visibile, “le cose sono un annesso o un prolungamento del corpo, sono incistate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione […]  cosa sarebbe la visione senza il movimento degli occhi? E come potrebbe questo movimento non confondere le cose, se fosse lui stesso riflesso o cieco, se non avesse le sue antenne, la sua chiaroveggenza, se la visione non vi fosse già prefigurata?” (Merlau Ponty , L’occhio e lo spirito). Come se avessimo davvero i mille occhi di Argo sulle nostre braccia, come se il reale, rassomigliato a un’invenzione grottesca, si trovasse già lì, squadrato dal loro movimento pittorico e inglobante, mentre la visibilità manifesta risulterebbe solo la copia o la colpa d’un’altra più riposta: poiché, affermava Cezanne, “la natura è all’interno”.
IMG_20160615_0005Avremmo così davvero l’impensata occasione di rescindere il velo di Maya, la cataratta metafisica che opacizza la nostra (s)vista, di squarciarne il velo della rappresentazione, quello per cui restiamo sempre ed esclusivamente innanzi alle cose, separati dalla trincea degli sguardi, reclusi nella logica inimica dello “stare di fronte”. Proprio l’occhio mansueto dell’animale, osservava Rilke, ci aprirebbe invece un nuovo pascolo, un’intimità del mondo, il crinale d’un’altra visione in cui esso si troverebbe non più disgiunto, ma già dove quelle sono, inconsapevolmente destinatovi, mescolato, confuso ai petali dei fiori, agli zampilli delle fontane, alla verecondia del cielo, lì dove “silenziosi volano gli uccelli / attraverso di noi” (Rilke, poema datato agosto 1914). Se questa conversione a cui dovremmo sottoporli non è altro che la trasmutazione del visibile in invisibile, l’avvicinamento di quel punto in cui l’esteriorità trapassa nel tramonto dell’interiorità, in cui per divenire quell’intimo spazio (l’“Aperto” che solo la creatura vede con tutti i suoi occhi) si esige il nostro compimento, ebbene solo la morte potrà allora disvelarne il miraggio, passare da una realtà torbida e spaventosa alla sua diafana messa a fuoco. Come scrive Maurice Blanhcot a proposito di Rilke: “la morte sarebbe in questo senso l’equivalente di ciò che è stato chiamato l’intenzionalità. Grazie alla morte, ‘noi guardiamo al di fuori con un grande sguardo d’animale’. Grazie alla morte gli occhi si rivolgono, e questo rivolgimento costituisce l’altro versante, e l’altro versante è il fatto di vivere non più distolti ma rivolti, introdotti nell’intimità d’una conversione, non già privi di coscienza, ma, grazie alla coscienza, collocati fuori di essa, gettati nell’estasi di questo movimento” (M. Blanchot, Lo spazio letterario).
Se giungessimo a tale metamorfosi, ad ammirare gli astri palpitanti nella nostra anima issatasi a veliera dell’immensità, allora sì, potremmo abbandonare l’orizzontalità per librarci sull’occhio-mongolfiera di Roden, per tornare ad essere uno sguardo compiutamente verticale, abbacinato dal fuoco dell’ubiquità, simili al dio solare che segnala la nostra appartenenza alla dismisura del cielo. E anche quando gli occhi della morte, ricordando i versi di Pavese, avranno il colore di quelli amati, teneri e cupi come profondi laghi di solitudine, traguardando le tenebre e la voce, richiudendoli contro le nocche dell’universo potremo forse spalancarli del tutto, ammirando soltanto così quell’infinito, amorevole, ultimo istante… (appena prima che un altro battito di ciglia li riapra sul mondo). 

Un istante ancora, guardiamo assieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…
(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)