Mille e una Lune

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(Commemorazione eretica del primo sbarco sulla Luna)

Mezzo secolo fa l’allunaggio… Mai visto, troppo visto, veduto per sempre. Se quel piccolo passo fu grande per l’umanità, lo fu più ancora per l’avallo dell’astro. Sì la luna, la luna che per millenni annodò il filo dei sospiri, che colmò la sete nelle grotte degli eremiti e rischiarò gli altipiani sul bastone dei pastori, lasciando brucare l’erba della sua luce, la luna che beccheggiò sulle vele delle navi e fuse il suo argento nei calchi delle cupole, che mescolò il suo candore al volto della Sulamita e si fece ramo all’allodola o preghiera ai fiori, sì, la luna dei poeti e dei santi lasciò cadere il velo del suo incanto, troppo, troppo esiguo mistero per noi, e permise che un’orma, come quella d’un abbraccio su un corpo, restasse per sempre sul suolo, sul suo nudo fulgore di spazio. La divinità fuggì e da quel momento si consegnò come un qualunque ammasso di roccia celeste, si prostrò al glorioso trionfo della scienza, al nuovo disegno di Faust, ad altro “folle volo” che purtuttavia non si concluse con la prora schiantata e precipitata nel gorgo del buio. Già, nonostante lo si lambì trattenendovi il fiato – la famigerata incognita “Houston, abbiamo avuto un problema” non fece, come nell’odissea di 2001, scoprire al tenero computer di bordo l’errore della verità –, nonostante tanto timore la luna non si rivelò la montagna del Purgatorio. L’uomo oltrepassò ancora le colonne d’Ercole, ma Dio non volle punirlo; forse assente o forse distratto, lasciò che la sorella d’Aurora concedesse non solo di scendere sul suo grembo incontaminato, ma anche di fuggirsene dopo avervi imposto il tremulo bacio, l’imperioso sigillo della nostra debolezza. La luna chiuse per sempre le palpebre del sogno, trafitta dal modulo Eagle come dal razzo di Le voyage dans la lune di Georges Méliès (l’invenzione dei Lumière non è in fondo che una replica del grande cinema dell’Universo). Addio dunque alle visioni dell’Ariosto, al paladino Astolfo portato sul carro d’Elia in cerca del senno d’Orlando: “Altri fiumi, altri laghi, altre campagne/ sono là su, che non son qui tra noi; / altri piani, altre valli, altre montagne,/ c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,/ […] e vi sono ample e solitarie selve, /ove le ninfe ognor cacciano belve” (Orlando furioso, XXXIV, 72). Addio a Caino rifugiato in un pianto di crateri e cosparso da un fascio di spine (quelle che la credenza popolare riteneva fossero le sue macchie); addio a quel cielo che consentì di orientarsi persino nella fosca gravità dell’Inferno dantesco – “e già iernotte fu la luna tonda:/ ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque/ alcuna volta per la selva fonda. (Divina Commedia, Inf. XX 127-129). Sì, addio anche al suo volto, al lume tremolante e nebuloso tra i rami della selva e i cigli della giovinezza, quella di Leopardi e di ogni nostro, così diverso, così eguale rimpianto. Quelle fantasie, quelle immagini, quel lirismo furono soppiantati da altri. Per la prima volta l’umanità coltivò il miraggio di rendere tangibile ciò che nel pensiero v’è di impensabile, di mettere piede sul terreno degli astri, sull’esteriorità, sul fuori, sul bordo siderale che contorna la nostra esistenza. Così la sabbia delle sue lande ci lasciò nelle mani i granelli dell’immensità sognata da Bruno. Il desiderio prese alla gola e divorò persino la paura residua; il satellite divenne ponte immaginifico: non avremmo più smesso di cercavi il monolite sepolto, la sua voce aliena rinviata dall’origine perduta sin “oltre l’infinito”. L’astronomia diventò una fucina di speranze, destini, creazioni, la nuova regola della poesia (a cosa corrispose tale sovraesposizione selenica ben ce lo espresse la luna di Kubrick, destinataria di una riflessione senza via d’uscita, specchio dell’abbaglio solare, di un interrogativo preso in un gioco di fuochi, urente intrattenimento del fuoco/pensiero).
Certo posso soltanto immaginarmi quale delicato e irresistibile stupore abbia accompagnato l’attesa di quell’Evento, forse il più imponente e ancestrale nell’epifania del nuovo volere, in questo pienamente religioso (come ogni grande evento esso era un’attesa d’oblii, la sua augurale impossibilità di compiersi del tutto). O forse non posso nemmeno immaginarlo provando per chi lo consumò sui miseri schermi in bianco e nero d’allora, la stessa invidia che avrei potuto nutrire per gli abitanti della Galilea sconvolti dall’incontro di Cristo. Forse quel frammento d’emozione intatta, opaca ma precisa che tuttavia riesco ad avvertirvi deve allora essermi giunto da ciò che colmò, con milioni di altri, gli occhi di mia madre e che lei, nella placenta del cosmo, già si apprestava a mostrarmi con la sua virtù generatrice, compulsando dolci riverberi sul cordone che ci avrebbe uniti, di lì a poco, nel suo grembo di luna.
Oggi nessuno scriverebbe più versi alla nostra languida compagna, né la fisserebbe tra promontori selvaggi e marine come in un dipinto di Friedrich o di altri paesaggi della pittura romantica. Abbiamo ucciso il chiaro di luna; ciò che non riuscì alla macchina a vapore fu più semplice per il calcolatore. Niente più lune assopite come rane d’oro nello stagno di Esenin, lune d’occhi increduli perse nell’azzurro dei quadri di Mirò, rosse come dorsi di tori nell’arena dei promontori dove si spezzano i muggiti del mare, lune di zafferano scheggiate sui muri di tufo, bianche di polvere sugli sterri dove vegliano i giochi dei fanciulli, salmastre d’argento sugli aloni dei pontili, corrugate tra le fronde di limoni o tonde come un monile rotolato sulle tegole dei borghi; niente più lune a cui ordinare le maree e la follia, a cui fermare sui canali veneziani palagi di cartapesta, a cui invocare ripari d’ululati e asilo per i viandanti. Niente più, o forse no…
Non è infatti proprio la letteratura a restituirci il segreto, a darci la ragione del suo compassionevole gesto, a sussurrarci nei profetici versi dell’Ariosto perché essa si sia ritratta da sé, lasciando violare il sogno e scrutare il mondo coi suoi occhi? Oh non è forse proprio perché da lassù “ebbe Astolfo doppia meraviglia:/ che quel paese appresso era sì grande,/ il quale a un picciol tondo rassimiglia/ a noi che lo miriam da queste bande;/ e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,/s’indi la terra e ‘l mar ch’intorno spande,/ discerner vuol” (Orlando furioso, XXXIV, 71).
Non lo fece proprio per questo? Perché potessimo scorgere all’unisono che il nostro orbe terracqueo, la nostra così trascurata dimora, potesse tenersi in un solo sguardo e poggiarsi su una mano simile a una sfera di cristallo o un frutto del paradiso? Che perciò dovesse essere dell’intera Umanità, di tutti e di nessuno, festa di popoli, pace e fede racchiusa nell’iride d’un solo uomo, coperto dalla pesante tuta spaziale, dalla stola d’un annuncio.
Passata la sbornia che fu tuttavia di quella primizia del cosmo? Ci restò certo il nostro incrollabile piacere di valicare un confine, di usurpare il mistero, di calpestare altri terreni. Sì, calpestare e conquistare, ecco l’antico e infelice tripudio, abbandonato anche lì, sul suolo lunare, inciso su una lapide con lo stilo del potere e lo scandalo del suo nome, conficcato dall’asta d’una bandiera come una picca nel corpo del nemico. Già, perché presto derubricammo la luna come una spoglia sull’ara del nostro progresso, un corpo morto appunto, un satellite esanime su cui non sarebbe valso più nemmeno la pena tornare, dacché la scienza s’era riconfermata scenario di guerra e sulla Terra nulla era cambiato (anzi!). Vi eravamo giunti una, più volte, ma forse fu davvero come non vi fossimo mai arrivati… Continuammo a pungerla con gli aghi delle sonde quasi a cercare di rianimarla, di ritrovarvi sete sotto le rocce, ma ormai noi, noi soli ne avevamo preteso l’addio. Avevamo osato più di quanto avremmo potuto e meno di quanto avremmo dovuto. In fondo, improvvisati nomadi dello spazio, ci limitammo a compiere una fugace scorreria senza nemmeno parlarci nel tepore d’una tenda; sì, avevamo provato l’ebrezza di lasciare un’impronta, eterna inezia sul deserto del cielo, senza nemmeno imparare da un piccolo principe, a coltivarvi una rosa….