L’esercizio di stile qui proposto – il rovesciamento di una poesia – si basa sull’idea che per ogni suo termine possa rinvenirsi, in una ipotetica algebra del pensiero o albero enciclopedico dell’intero sapere, il suo “esatto” (nel senso di ciò che vi si esige) contrario. In questo caso, rispondendo alla sfida proposta diversi anni or sono da Stefano Bartezaghi nella sua rubrica Lessico&Nuvole, ripropongo quale abbrivo della lettura tanto il suo quesito che parte della lettera inviatagli. Per approfondire la questione rimando ovviamente all’introduzione e al mio ben più complesso, articolato e gustoso lavoro di rovesciamento dell’ultimo Canto dell’Inferno dantesco, pubblicato e visionabile in anteprima nel sito (clicca qui per andare all’articolo “Dante a rovescio”)
Clicca qui per leggere i testi di Montale e Quasimodo rovesciati (con originale a fronte)
“Caro Bartezzaghi
ho recentemente rinvenuto quanto, in un passato contributo di Lessico & Nuvole, lei poneva come ammonitorio interrogativo ai facitori pansemiotici di poetici balocchi:
Ci sono state molte reazioni al gioco di Umberto Eco, che consisteva nel rovesciare il significato di alcuni versi della Divina Commedia. “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura” diventa: “Al margin di ristar di vostra morte / mi persi in un deserto illuminato”. Rispondo alle domande più frequenti: è un testo inedito, non conosco altre parti della Commedia rovesciate da Eco, e si tratta di un gioco con risultati non univoci. Il contrario di “Tanto è amara” è “tanto è dolce” o (rovesciando entrambi i termini come ha fatto Eco) “sì poco è dolce” ? Qui la scelta è del giocatore. […]
Bene, ma come rovesciamo il “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”?
Montale non è molto facile da rovesciare. Vediamo domani, invece, con Manzoni.
(25 febbraio 2002)
Ebbene propongo di seguito una risposta al suo sfingico dilemma d’allora. Le porgo dunque una trascrittura dell’intera poesia degli Ossi di seppia e dell’altrettanto celebre “Ride la gazza nera sugli aranci” di Quasimodo (precisando che solo nella prima ho alterato in alcuni versi la misura metrica dell’originale).
Senza presunzione di rimbaudiana veggenza (“ineffabile tortura in cui [il poeta] ha bisogno di tutta la fede,di tutta la forza sovrumana, nella quale fra tutti diviene il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto -ed il Sapiente supremo! – […] Egli giunge all’ignoto, e quando, smarrito, finirà col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste!”) ho inteso capovolgerla con “quell’altro che è voi, l’altro che a voi è bramosia”, giacché se proferendo “ciò che non siamo” si allude a uno iato incolmabile, a una dicotomia, per così dire, fra io e non-io, ex abrupto s’impone – come m’assembra – il rovesciamento rappresentato dalla capriola dialettica per cui l’Altro sia nello Stesso; capriola suffragata, in siffatta antifrasi dell’esistere, dall’opposizione negazione/affermazione ( quella tra la forma negativa dell’originale e del suo rovescio) o, in filigrana, meontologia/ontologia (con tutte la possibili aperture ad un senso eracliteo dell’esistenza rischiarato, e contraio, nel non-detto montaliano). Come noterà ho altresì voluto agitare le coppie oppositive io/tu-noi/voi, ritenendo che anche su tale categoria, ove possibile, si dovrebbe operare trasmutando; le confesso anzi che, nella mia intenzione di sterrare ogni preziosa materia signata dall’orlo mallarmeano del verso, dal bianco intarsiato fra le parole come dall’inesauribile fondaco d’ogni strumento, residuo, impiastro, grumo della lingua, avrei voluto squadernare contrarii fra i modi verbali (ad esempio opponendo fra di loro le sfumature semantiche di congiuntivo e indicativo) ma certo, oltre che improbabile, l’effetto sarebbe risultato quello d’un macchinoso sferragliare; inoltre quale principio si dovrebbe ultimativamente sancire per i tempi? Quale opposto scegliere per il presente fra passato e futuro, come per l’oggi fra lo ieri e il domani – “dire ieri domani/ un abuso”? Sembra proprio che in tali casi la scelta non possa che essere esibita al lume del senso perseguito; tale è infatti l’altro cruciale aspetto richiesto dal “negativo” d’un processo foto-logo-grafico che abbia per oggetto pensiero ed anima: non è evidentemente sufficiente fissare l’opposto a livello del significato dei singoli termini, poiché in tal modo si otterrebbero talora delle mere ridondanze (nella poesia di Montale un eventuale contrario di “agli altri ed a se stesso” reso con “a se stesso ed agli altri”, al di qua d’una mera inversione dell’ordine non varierebbe affatto – per dirla con Frege – né la Bedeutung né il senso dell’espressione) oppure dei costrutti, se non del tutto insensati, quantomeno poco esaustivi. Sostituire, nel primo verso della poesia di Montale, “da ogni lato” con “in nessun mezzo” avrebbe limitato notevolmente la comprensione; occorre poi considerare come sia da evitarsi una negazione, quale quella espressa dall’aggettivo “nessuno”, che, qualora l’opposto del sostantivo non alteri chiaramente il referente dell’attribuzione, facilmente riproporrebbe l’annichilatio della doppia negazione (¬ogni / ¬lato vale di nuovo “ogni lato”), cioè il valore di quella originale (evidentemente ben diverso, senza spettro di identità del senso, è il caso in cui, ad esempio, ad “ogni uomo” si dovesse opporre “nessuna donna”); pertanto si è quindi preferito percorrerre la diagonale del quadrangolo aristotelico, scegliendo piuttosto la contradditoria con la quantificazione “qualche”.
Le esprimo queste congetture poiché proprio fra i risvolti di siffatti discernimenti risiede in fondo, nobilitandone lo sforzo, un riflesso di quella suggestione e attrattiva animatrice dei progetti di costruzione di lingue filosofiche a priori: quello di scoprie un’“ ars magna” che, giusto fornendo una grammatica delle idee, un’ordinata gerarchia enciclopedica, una tipologia notazionale non dissimile da quella che dobbiamo immaginare nell’opera di sfoderare le poesie, consentisse di eliminare gli idola dal seno ambiguo delle lingue naturali.
In effetti, ancor prima di tali creazioni, fissando nel presente ludo Natura quale contrario di Uomo (con echi dell’ambivalenza leopardiana “madre di parto e di voler matrigna”, che con un alito riesumi le umane spoglie…), o fossato di albero (con il sovra-scriversi, nel richiamo di quella radici/fronde, dell’opposizione per relatività alto/basso) non si chiama in causa un principio dissimile da quello dell’“albero di Porfirio”; struttura nella quale, come noto, sulla scorta degli studi aristotelici sulla definizione, il neoplatonico che raccolse le Enneadi e stilò la biografia di Plotino divide ogni genere per mezzo di due differenze che costituiscono giustappunto una coppia di opposti (ogni genere, più una delle sue differenze divisive entra cioè a costituire la specie sottostante, definita, lippis et tonsoribus, per il genere prossimo e la sua differenza costitutiva)”.