Le immagini di questo articolo sono screenshots del film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, catturati peronalmente in osservanza all’art. 70 comma 1 Legge 633/41, ai soli fini illustrativi dell’opera e per “uso di critica e discussione”
Un duello a scacchi sui ciotti di una gelida riva, innanzi un mare scosso nel pallido baluginio spiovuto fra la cenere delle nubi; così l’inquieto Antonius Bloch decide d’affrontare la morte giunta a prenderlo, invitandola al gioco con la promessa di “darle scacco” e di avere in tal modo salva la vita. L’indimenticabile sfida, come noto, si concluderà nell’ombra lieve e trepida che una selva stende sull’animo del cavaliere; a quel punto, prendendo atto della sconfitta, rivolgerà all’esiziale avversario le seguenti battute (clicca qui per vedere la sequenza):
– Niente ti sfugge?
– No niente mi sfugge
– E tu ci svelerai i tuoi segreti?
– Io non ho nessun segreto da svelare, non mi serve sapere.
Al di là della narrazione bergmaniana, maggiormente concentrata sul motivo della grazia che non sull’enigma tanatologico, le parole pronunciate suscitano un certo interesse per la loro singolarità. Alla morte non serve sapere poiché in fondo non ha nulla da dire sulla vita, nulla ne sa e nulla di questa le appartiene. Se tuttavia si cogliesse il termine in modo analogo all’eckartiana interpretazione del Nulla (leggendo in modo del tutto particolare la frase biblica “Nulla è eguale a Dio” il grande mistico tedesco la rovesciò col significato di “Dio è eguale a Nulla”[1]), si potrebbe ritrascrivere l’affermazione nel senso che proprio il Nulla sfugga alla morte, che essa non rappresenti cioè la rivelazione d’un abisso recondito (non ha nessun segreto da esibire), né un ponte verso l’al di là, bensì qualcosa di assai più paradossale, sotteso alla stessa partita e al salto che le sue mosse continuamente compiono da una posizione all’altra.
Con la morte – scrive Maurice Blanchot – “interviene un salto invisibile, ma decisivo: non nel senso che, attraverso la morte, noi passiamo all’ignoto, o che dopo la morte noi ci troviamo consegnati all’al di là insondabile. No: l’atto di morire è questo salto, la profondità vuota dell’al di là; il fatto di morire include un rovesciamento radicale, per cui la morte che era la forma estrema del mio potere non diventa soltanto ciò che mi destituisce gettandomi fuori dal mio potere di cominciare e persino di finire, ma diventa ciò che è senza relazione con me, senza potere su di me, ciò che è sciolto da ogni possibilità, l’irrealtà dell’indefinito” (M. Blanchot, L’espace littéraire, Gallimard, Paris 1955; tr. it. Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1975, p. 87).
La partita a scacchi non si sarebbe allora potuta giocare se non in un’illusione, quella che alimenta in Antonius Bloch la convinzione di disporne e, come afferma, di giungere a darle scacco ottenendo così la salvezza. Egli non si accorge tuttavia di assumere in tal modo giusto il medesimo abito del suicida, di colui che con la morte volontaria si rifiuta di vedere l’”altra morte”, quella che non si afferra e non si raggiunge mai, rispetto alla quale solo la finzione di un potere, trasgredendo il quadrifarmaco epicureo (non debbo averne timore poiché quando c’è la morte io non vi sono – non ne avrò mai esperienza – e viceversa), potrebbe supporre di eguagliare l’“io” che dà la morte a quell’altro che la attende. Se “quando mi do la morte forse sono ‘io’ che la do, ma non sono io che la ricevo” (Ibidem), specularmente si potrebbe dunque asserire “la morte che credo di vincere non è la stessa che mi risparmierà, quella che non mi accadrà mai” (Ivi).
Come affermava Carmelo Bene non siamo noi a morire ma è la morte che muore, mentre la vita è già la morte; l’altra morte blanchotiana è infatti proprio questa oscurità del vivere, il suo confine (su cui sempre si pone il centro che lo traccia) privo di potere, essere ed agire, l’eternamente caduco come “l’eco di ciò che è già sempre passato, passando tuttavia: il passaggio” (M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; tr. it. La scrittura del disastro, SE, Milano 1990, p. 56).
Ecco dunque quel che aforse leggia sopra ogni mossa, nel continuo risuonare della domanda posta dal cavaliere come una questione già segnata dall’ansia del passaggio, del per-ire attraverso quel limine dell’ignoto che è la domanda stessa. Dare scacco alla morte non può significare la propria salvezza, ma solo la salvaguardia della Vita da quel che renderebbe sospetto anche il nulla che la minaccia, togliendo così all’essere che ancora lo regge col sigillo dell’onnipotenza (la morte come concetto ed hegeliana forza del negativo) il beneficio dell’accadimento.
La partita non può allora che essere nostalgicamente contro se stessi, da soli innanzi alla scacchiera come Antonius Bloch – solo un saltimbanco dei miraggi ne condivide la stessa ingannevole visione del ferale avversario (si veda la sequenza) – mentre il lembo del mantello con cui egli cerca di interromperla non può spostarne alcun pezzo, lembo del morire anonimo che facendoli cadere li ricolloca nel medesimo punto, sul confine di una posizione che sarebbe escluso oltrepassare proprio valicandola, che si oltrepassa quindi senza che ciò avvenga (l’impossibile si compie senza trionfale sembianza d’evento). Tale è in definitiva la sconfitta: si perde senza che si sarebbe potuto perdere, né vincere (la stessa morte d’altro canto prevale nel film solo in forza di un raggiro: osservando, nella varie sequenze, la posizione dei pezzi sulla scacchiera lo scacco non sarebbe infatti potuto mai accadere, se non forse spostando in-visibilmente le pedine dei giorni). Soltanto così, in una assidua solitudine giochiamo davvero (al)la morte, disegnando il più accorato, ineluttabile e superbo scacco contro se stessi, soltanto in forza delle nostre residue mosse sulla scacchiera della finitudine.
[1] “Dice la Scrittura: ‘Nulla è eguale a Dio’. Per divenire dunque uguale a Dio, l’anima dovrebbe divenire un nulla? Proprio così”. Cfr. I mistici medievali, a c. di. G. M. Bertin, Garzanti, Milano 1944, p. 323.