Non v’è forse rappresentazione più terribile e palpabile della pena infernale di quella offerta dalla predica di padre Arnall nel romanzo Dedalus di James Joyce. L’inferno, con una esposizione sempre più ributtante e paurosa, vi è presentato come un carcere angusto, fetido e oscuro, dimora di anime tormentate, senza alcuna possibilità di assuefazione, tanto dallo strazio fisico che dal dolore della coscienza, dal verme della colpa nella putrefazione del peccato, dal sapido rimpianto dei piaceri, dall’inconsolabile e tardivo rimorso per i peccati, dall’aculeo della recriminazione per il mancato pentimento durante la vita. Nonostante l’impressione che tali visioni possano suscitare, la conclusione della reprimenda si sofferma tuttavia sulla condanna più orrenda e sconvolgente che il pensiero possa evocare: l’eternità di tale stato. Con un paragone di grande efficacia il sacerdote invita a figurarsi l’elevato numero di finissimi grani di sabbia che un pugno possa racchiudere, poi a immaginarne una montagna alta, larga e spessa due milioni di chilometri, elevata dalla superficie terrestre sino alle propaggini più remote dello spazio:
e immaginate questa enorme massa di incalcolabili particelle di sabbia moltiplicata tante volte quante sono le foglie nella foresta, quante sono le gocce d’acqua nel possente oceano, quante sono le piume degli uccelli, le squame dei pesci, i peli degli animali, gli atomi nelle vaste propaggini dell’atmosfera: e immaginate che alla fine di ogni milione d’anni un uccelletto venga a portarsi via nel becco un granello minuscolo di quella sabbia. Quanti milioni su milioni di secoli non dovrebbero passare prima che l’uccelletto avesse portato via anche solo un decimetro cubico della montagna, quanti incommensurabili periodi su periodi di epoche non dovrebbero passare prima che l’avesse portata via tutta! Eppure al termine di tale sconfinata estensione di tempo, non si potrebbe dire che fosse trascorso neppure un attimo dell’eternità. (J. Joyce, Dedalus, tr. it. B. Oddera, Mondadori 1980, p. 152)
Come non associare allora tale immagine a quella del granello nel detto nietzschiano, all’uomo costretto a capovolgersi con l’intero universo nella clessidra dell’eterno ritorno, al disgusto e all’orrore in cui il suo demone precipita il pensiero? Se dunque la narrazione di Arnall può solo sconcertare in modo talmente fantasioso da indurre il giovane Stephen al rifiuto della fede piuttosto che al suo contrario, quanto ne suggella davvero il ribrezzo è proprio l’inconcepibile cifra di quel castigo interminabile, ciò senza cui tale raffigurazione dileguerebbe nella stessa chimera della sua minaccia. Quasi che, privata di quella continuità, una simile condizione fosse talmente abnorme da non potersi nemmeno considerare, da rifiutarsi a una qualsivoglia credenza; come se solo in un carcere imperituro risultasse plausibile che simili pene continuino a mantenersi senza estinguersi assieme ai loro sventurati portatori.
Qualcosa dovrebbe allora destare il nostro interesse per l’eternità, farci notare quanto il peso della sua prospettiva sia talmente angustiante da potervi distruggere anche qualsiasi spazio di felicità. Cosa diverrebbe infatti la stessa beatitudine, altresì impassibile di variazioni nella partecipazione all’amore di Dio (un suo mutamento lo renderebbe infatti imperfetto), se non la stasi d’un’incoscienza, uno stagno senza vita, un deserto di cieli, il requisito immutabile in cui cadrebbe la stessa divinità se non si fosse confrontata giusto con l’avventura del divenire e dell’uomo? Un’estasi perennemente risolta nel bagliore divino cosa potrebbe distinguervi se anche tale apparizione risulterebbe alla fine la tenebra del chiarore, un essere allucinato, l’erosione della differenza in cui ritagliare la dialettica del mondo? Non finirebbe per dimenticarsi di tutto – “a quella luce cotal si diventa, / che volgersi da lei per altro aspetto/ è impossibil che mai si consenta” (Paradiso, XXXIII, 100-102) –, tumulata per sempre nel sepolcro della luce, non essendo il suono delle parole “per sempre” altro che la scritta sulla sua lapide celeste? “Un punto solo m’è maggior letargo/ che venticinque secoli alla ’mpresa,/ che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo” (Paradiso, XXXIII, 94-96), afferma Dante parlando della dimenticanza che già solo la sua fugace visione gli produsse; solamente con un ritorno il suo indiamento passeggero avrebbe allora potuto esserne testimone, divenirne memoria, cantarne il racconto della sua ineguagliabile voce.
Senza l’atto della creazione Dio stesso si risolverebbe nella “sovradeità” dei mistici, nel male divino d’un nulla che, senza quella lotta di sguardi, di sé pure nulla saprebbe. Ma se ciò vale per l’Eccelso, a maggior ragione non toccherà le creature, soltanto passibili d’annichilirsi immergendosi nella perfezione, di esalarvi il proprio lume similmente a una candela che svanisca accostandosi al sole? Se persino il divino ebbe bisogno dello specchio del tempo e della nostra domanda per riconoscere se stesso, il precipizio dell’eternità sancirebbe per l’uomo e la sua felicità, così intrecciata alla sua finitudine, l’unico esito di confondersi col più ineluttabile oblio; non ci sorprenderà allora che anche sulla terra gli immortali-trogloditi dell’omonimo racconto di Borges siano infine ridotti all’afasia e alla più sordida accidia e smemoratezza (in un tempo infinito, nella certezza di vivere tutte le vite possibili, passate, presenti e future, qualsiasi azione verrebbe infatti privata d’ogni stimolo e consapevolezza).
Se l’eternità si palesa come l’autentico e solo inferno, il paradiso non ne sarà dunque che una sua ubicazione nel gelo delle altezze. Forse si mostrerà in apparenza il luogo di un’assenza felice, di una altissima comunione, di un guadagno finalmente raggiunto; nell’incommensurabilità degli evi e in mancanza di contrari (anche se si potessero ammettere nell’amor Dei verrebbero diluiti dal suo oceano senza tempo), esso finirebbe tuttavia per confondersi, per spegnersi in un gaudio nauseabondo, in quella oscurità senza soggetto né oggetto cui solo la più raffinata finzione poetica avrebbe potuto restituire qualche sembianza di umanità, raffigurarvi tra i fiori e le faville della rosa celeste i visi beati “d’altrui lume fregiati”, il trono di Arrigo VII, il dialogo con San Bernardo e la sua amorevole supplica alla Madonna.
Forse, come per il Dio di Spinoza, dovremmo infine ammettere che sia l’eternità a sussistere mentre noi non esisteremmo affatto: “al principio del secolo XIX questo giudizio è ripreso da Coleridge, per il quale Shakespeare non è un uomo ma una variazione letteraria del Dio infinito di Spinoza” (Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano 1963, p. 146). Borges, che nelle sue splendide note riassunse argomenti contro e a favore dell’eternità infernale, pur rilevando il pregevole spavento e la raccapricciante condizione di tale attributo, non si spinse tuttavia – questo si può rimproverargli – sino a riconoscere che qualunque luogo lo accolga possa risultare altrettanto ripugnante e inammissibile. Uno degli argomenti che rammentò contro la tesi irreligiosa d’un’incessante durata è quello secondo cui, da un opposto punto di vista, l’immortalità non sarebbe una maledizione, ma un dono: “l’inferno, secondo quella pietosa teoria, è il nome umano blasfemo dell’oblio di Dio” (J. Borges, Discussione, in: Tutte le opere, Mondadori, 1984, vol. I, p. 368). Ebbene, proprio tale conclusione, se spinta alle estreme conseguenze, porterebbe invece ad insinuare nel ragionamento il presupposto contrario, ad assimilare cioè entrambi gli stati oltremondani, ad asserire che solo l’amnesia di Dio, comunque essa sia conseguita, sia il vero nome dell’inferno; ciò valga quand’anche fosse la stessa eternità (di beati o immortali terreni) a produrla.
Ad illustrare tale paragone si potrà ad esempio notare che se l’inferno beckettiano è la misera attesa di un Dio incognito di cui si ignora l’esistenza, anche la viscosa immobilità del paradiso si profilerebbe sotto tale riguardo come l’indugio d’una permanenza, d’una pienezza senza trascorrere, d’una situazione che per il nostro sguardo conscio e terreno non può che rovesciarsi nel vuoto dell’incertezza, nella veglia infinita d’un erebo incruento ma crudele, solennemente affrescato soltanto del suo azzurro letargo.
A volersi rappresentare una così contrastante realtà, nessun’altra opera dell’ingegno umano più del Trittico del giardino delle delizie di Bosch sembra esibire tale indissolubile rinvio, il conio della tortura impresso su entrambe le facce della corrotta moneta dell’eternità. Attingendo al suo esoterico fondaco di simboli, l’ambiguo giardino delle delizie del pannello centrale potrebbe infatti svelare non solo la perdita dell’innocenza e la corruzione del peccato; per alcune interpretazioni alluderebbe alla condizione di Adamo ed Eva prima della cacciata, all’utopia, scandita dalla gozzoviglia erotica delle sue figure, di un ritorno al paradiso terrestre e al suo gaudio placido e incontinente. Descriverebbe insomma un licenzioso tripudio, un’orgia di pace nel tempio della Creazione, il rimando a una dimensione precedente la caduta, uno stato da supporsi per ciò stesso fuori dal tempo. Ma l’inferno può ben essere, si veda Bertrand Shaw, un’eternità che futilmente intrattenga i suoi ospiti con l’attrattiva del lusso, dell’arte e dell’erotismo; cosa separerebbe allora questo scenario dal panello laterale sinistro, raffigurante l’incubo degli inferi; cosa distinguerebbe l’ottusa gioia primordiale del paradiso adamitico dal supplizio d’un’ebetitudine senza termine?
Vi si osservino Adamo ed Eva fra creature d’orrida grazia, uccelli a tre teste, pesci volanti, unicorni, bizzarri gumerri, cani a due zampe, viscide chèppie e mostruosi anfibi; e poi la “delizia” libata fra pispole giganti, strigi e inquietanti anatre cannibali (una mano vi avanza nel retto), miriadi di rubescenti bacche e frutti del desiderio offerti da angeli zoomorfi e fanti-tritoni alla sete di uomini estasiati, assopiti, trasfigurati dalla brama al punto di assumere volti cinerei e sgomenti, di lasciarsi germogliare o di nascere disgustosamente dai virgulti, di amoreggiare in una valva gigante o di bere linfe colate da occhi “divini”, gangli sormontati sulle incrinate sfere del meraviglioso giardino. A cospetto di ciò si potrebbe dunque credere che l’inferno sia davvero solo quello, così parossistico da sciogliersi in una grottesca curiosità, dei demoni animaleschi che inchiodano i corpi, li divorano e li trafiggono con trombe incistate nelle carni, liberate anzi con tutti gli organi che mettono l’ali e ripullulano l’inconscio boschiano (quello su cui fluttua il demoniaco “uomo barca”, guscio vuoto di ricordi alla deriva sui remi delle sue membra disgiunte)?
Fra i nudi eserciti delle fiamme e le grandi orecchie trafitte dall’osso sonoro del dolore, gli uccelli che trangugiano uomini e li defecano fra i denari della dannazione, che adoperano la scrittura e la musica quale diabolico strumento per graffire le terga dell’anima, sono forse lì a dirci solamente una cosa; che l’inferno, come nel sogno metafisico di John Tanner, è terribile proprio perché irreale e che la sua vera, equanime dannazione è piuttosto solo una nostra discutibile invenzione: quella ambigua, spaventosa, irresistibile delizia chiamata eternità.
“La mia strada è passata / Tra i demoni e gli dei, indistinguibili. / Era tutto uno scambio di maschere, di barbe, / un volapük, un guaranì, un pungente charabia che nessuno poteva intendere / […] Anche la tua strada sicuramente / scavalcava l’inferno ed era come / dare l’addio a un eliso inabitabile” (Montale, Satura, “La mia strada è passata…”)