L’immagine in evidenza di questo articolo è uno screenshot del film I racconti del cuscino di Peter Greenaway, catturato peronalmente in osservanza all’art. 70 comma 1 Legge 633/41, ai soli fini illustrativi dell’opera e per “uso di critica e discussione”
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Ogni corpo è pe(n)sante, de-pensato come avrebbe detto Carmelo Bene, pensiero che non si presta a essere soggetto, corpo dis-graziato, instabile e di-segnato, corpo adatto alla scrittura quindi, anzitutto quella della luce del cinescopio: cine-foto-grafia. Corpo pesante che può tuttavia scarnificarsi (come quello dell’amante francese nel film), essere sfogliato e lasciare gli ideogrammi che una finzione d’anima (cos’è l’anima se non un testo?) vi imprime. Così il il libro di pelle ricavatone dalla protagonista si ripiega o si arrotola giusto come il nastro d’una pellicola; nel cinema infatti “corpo è la parola chiave già pronunciata e scritta. Paradossalmente centrale, se in fondo si parla sempre di fantasmi (al cinema)” (E. Ghezzi, Paura e desiderio, Bompiani, 2000, p. 298). Ma essa è pure, scrive ancora Ghezzi, “l’unica che attraversa il doppio gioco del cinema, che ne ripete il doppio gioco” poiché esprime il sogno di re-incarnarne le immagini – sfilandole dal suo corpo – nell’occhio dello spettatore (l’utopia del cineocchio di Vertov) confondendo dunque corpo dell’immagine e immagine del corpo (morto). Come tale aspirazione intrecci calligrafia d’Eros e Tanathos è magnificamente esibito dalle sequenze di The Pillow Books; un’implicazione che non può non richiamare le osservazioni blanchotiane sul nesso scrivere/morire: “scrivere significa non rinviare più al futuro la morte sempre già passata, ma accettare di subirla senza rendersela presente e senza rendersi presenti a essa, sapere che, per quanto non sia stata provata, ha avuto luogo, e riconoscerla nell’oblio che lascia dietro di sé e le cui tracce che si cancellano ci chiamano a staccarci dall’ordine cosmico” (M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; tr. it. La scrittura del disastro, SE, Milano 1990, p. 84).
Questa morte vetusta che altro non è se non la morte che non fu nostra, il nulla d’un passato immemorabile, il bambino che eravamo nei sogni di chi ci ha preceduto, si istoria allora sui corpi per disegnarne un avvenire che la renda possibile e che, appunto, la de-sidera nel momenro in cui si svelle come un destino dagli astri: “se anche il disegno più lieve su carta ci fa sentire che potremmo essere o siamo anche quella linea, quel tratto, quel punto, quel nulla disegnato da… noi altri” (E. Ghezzi, Paura e desiderio, cit., p. 600).
Ecco perché dunque gli amanti non possono forse che us-Ur-are i grafi dell’anima, mentre i suoi caratteri sull’epidermide (memoria in-esistente del suo testo) ne scrivono invano pantomima di linguaggio, quella che vi si avvicina solo imprecisamente nella sua insuperabile distanza dal corpo (l’anima lo sfiora da “dentro”, dal suo precipizio interno, ma non lo tocca: deleuzianamente “non abbiamo, siamo un corpo”). Né varrà alla fine scarnificarlo per ritrovarvi la verità del suo foglio-mondo sul libro della carne: quella myse en scéne, tracciata per manipolare l’essenza, la nascita (“naissance” – ricorda Ghezzi – in quanto “n’essence”, “non essenza”) e la morte dell’altro (la “Morte altra”), mancherà, tranne che sulla pelle del cinema, sempre di una parola, l’ultima, quella del cattivo desiderio: a-malo…
Cattivo desiderio in quanto grado e , quindi soglia negativa, del desiderio o circuitazione abbreviata e , in ultima istanza, blocco dello stesso?