La tela di Aracne e il sacrificio dello scorpione
Che il ragno sia creatura ancestrale ̶ il primo fusolo setifero si stesse dagli evi del Devoniano, trecentottantasei milioni d’anni or sono ̶ è circostanza non accidentale per questo artropode con opistosoma, cefalotorace, cheliceri per la masticazione e il miracolo della geometria nel demiurgico addome.
Forse per tale ragione la credenza popolare vuole che esso possa, una volta caduti nei sogni, divenire ricettacolo dello spirito, consentirgli di entrare e uscire dalla bocca dell’ignaro dormiente; forse giusto perché l’arte di fabbricare trame e raffigurarsi eccelse simmetrie risiede appunto nella facoltà immaginativa dell’anima.
Che tale platonico ingegno fosse dote della giovane figlia del tintore Idmone è fatto risaputo quanto la sorte riservatale nella gara di ricamo e filatura con Pallade Atena; alla collera divina per la perfetta effigie dell’Olimpo (e dei suoi lascivi amori) seguì la distruzione del lavoro e l’impiccagione della sfrontata Aracne: “O folle Aragne, sì vedea io te / già mezza ragna, trista in su li stracci / de l’opera che mal per te si fé” (Dante, Purgatorio, XXII, 43-45). Con benevola nemesi la volontà della dea lasciò tuttavia che la corda si tramutasse nell’esile filamento, che l’esizio del suicidio si imbrigliasse nella sua interminabile e minuziosa tessitura.
Che cos’è dunque la tela del ragno se non un’immagine ordinata del divenire, la trama imposta al caos primigenio, quella su cui si sdipanano anche i nostri corsi individuali, mentre simile alle Moire esso si rintana ad ordire e annodare il destino (così lo vuole la mitologia scandinava)?
I suoi orifizi servono a dissipare il tempo con un filo di tenebre e stelle, come a portare la prole nel ventre della sua fauci. Lo spirito sortisce dalla labbra in sua forma, ma a sua volta ritorna al nulla viscoso della sua bocca: il ragno è forse l’anima che divora e partorisce se stessa.
La vanitosa tela d’Aracne non è allora il veritiero disegno della vita? Una diaccia propaggine di lanuggini trascinate dalle zampe di fragili folci sulle vampe d’Aurora, sulle brezze del mattino o sui canneti di Pascal, la rete in cui impigliare la luce, la nascita e la morte. Un grembo che accoglie i bozzoli delle larve, ma egualmente la stola per fasciare una volatile salma (di nuovo lo spirito).
Il ragno del dolore non è tuttavia mai abbastanza esteso per potervisi imprigionare; un ragno sempre più grande potrà celare il precedente: “l’amore bello e pulito si è nascosto / sotto un ragno. Il sole / come un altro ragno mi nasconde / con le sue zampe d’oro” (G. Lorca). L’addome oscuro dell’ultimo ragno non sarà altro che l’immensità dell’universo.
Il suicidio d’Aracne non poteva perciò che restare incompiuto e inestinguibile come se la sua tela fosse sempre e ancora da ampliare, se la solerzia, la pazienza e lo scrupolo per i dettagli di cui spesso dà prova il suicida venisse annodata nei suoi stessi fili di seta. Chi progetta di uccidersi agisce in previsione del suo gesto appartenendo ancora alla quotidianità, trascurando invece di non potere assumere la morte – ciò che è destituito da ogni relazione con noi e sciolto da ogni possibilità (per dirla con Epicuro, quando io vi sono non c’è la morte e viceversa) – alla stregua di qualcosa che si possa invece raggiungere, illudendosi soltanto, come se l’animale potesse nella sua maglia catturare se stesso, di potere eguagliare il soggetto che dà la morte a quell’altro che la subisce.
Forse per questo la sua volontà finisce invece per rigettarsi dalla prossimità del suo limite al calcolo meticoloso di tutti quei preparativi che le permettano di avvicinarvisi sempre un poco di più; non è simile tuttavia a un ragno che sulla tela di quegli atti si accosti ad una acheronzia, col suo teschio d’oro brunito, sempre troppo piccola per restarvi catturata?
Tale paradossale condizione – l’impossibilità di morire – ha nell’orizzonte del mito un vanto assai emblematico grazie a un artropode ancor più remoto. Per il suo oltraggioso tentativo di violentare Artemide, il gigantesco cacciatore Orione fu punito dalla dea con la morte inflittagli da una puntura di scorpione, fatale per il suo calcagno e la stessa bestiola. Al pari del figlio di Poseidone anch’esso fu trasformato in costellazione, perpetuamente inviato a minacciarlo nell’imperturbabile firmamento. Il servigio della creatura fu dunque un’analoga morte volontaria; il beneficio della fine interdetta ad Aracne fu dunque sancito dalla condanna inflitta ad Orione. Quasi che il suicidio venisse assolto soltanto in nome di una giustizia, che questa leggenda confermasse quella secondo cui, col suo stesso pungiglione, lo scorpione si toglierebbe la vita innanzi a un’iniqua minaccia, alla cerchia del fuoco che le rosacee dita di Eos annunciano aprendo le porte del cielo al carro del Sole. Così morirebbe di desiderio in una fiamma d’altezze.
Di certo questo Catone del regno animale, arcaico quanto il mistero dell’essere, venefico e prodigo del suo dubbio, placido di lungimiranza, fulmineo quanto l’alea del volere, assieme al suo fratello tessitore non ci inocula che un’impensabile verità: che non v’è altra conquista nel suicidio ̶ quello d’Aracne e dello scorpione d’Artemide ̶ se non quella d’un’esecrabile immortalità, che lassù, nel cappio delle stelle, non v’è altra fine possibile se non quella dell’eternità (essa soltanto intesse la sua tela su una croce).