La teoria dell’isola

A corollario, non certo in contrapposizone, della celebre teoria della Sicilia di Manlio Sgalambro (clicca qui per  ascoltarla dal sito ufficiale), questa nota per contrappuntarvi il mio sentimento :

Che cos’è un’isola? Sovente è immaginata come un lembo di terra posato sulla bocca del mare, sempre pronto a inghiottirlo. Più che allo sprofondare, l’insularità rimanda tuttavia all’affiorare, all’emersione dalla collera dei flutti, dalla incolumità degli abissi. Ciò non vale solo per il corso naturale quanto soprattutto per il tempo degli uomini.
Una teoria dell’isola porta di conseguenza a suggellare un legame esclusivo, una corrispondenza, un ritorno di canti portato dai mari. Come l’invisibile disegno che stringe una costellazione, anche quando sia presa per sé l’isola è un’entità sempre appartenente a una trama: è la realtà di un arcipelago. Non potrebbe mai esistere un’unica isola (in tal caso coinciderebbe con l’idea di tutte le terre, il grande continente perduto, Pangea).
L’isola è sempre sorella di tutte le altre: ogni isola è tutte le isole.
Gli isolani non sono solo portatori di un sentimento oscuro, di un’angoscia di dissolvenza, ma anche di una brama inappagabile – a volte ebbra e crudele, a volte languida ed edenica –, di un vittorioso spirito di sopravvivenza, di un dono d’accoglienza. L’isola non naufraga ma accoglie e riceve i naufraghi; li sottrae al tragitto, alla navigazione, al corso delle vicende. I segni mitici dell’isola sono l’antro e il labirinto: in entrambi essa trattiene, confonde, incanta, sensualmente o terribilmente. L’isola è sempre portatrice di un sortilegio! Se essa si contrappone alla “terra ferma” per un’idea di deriva, questa è solo quella che essa porta nel tempo. La metafora della nave vale se si pensa che la sua polena è sempre un tempio, la sacralità che stringe uomini e dei, cielo e mare innanzi a un Evento sconosciuto. Non v’è isola che più della Sicilia esprima questa cifra omerica, questo lavorio tellurico, questa furia di Ciclopi e mostri che risalgono dalle profondità per sbocciare nei fiori e plasmarne il dolce grembo delle coste.
Non v’è isola che più della Sicilia esprima questo vorace nutrimento, questo cafarnao di popoli, questo crocicchio di punti cardinali, santità di cieli e di cupole, di corimbi e di brezze, ridesti in una girandola di banderuole a rintracciare il Nord, il Meridione, l’Oriente e l’Occidente… L’arte della Sicilia ne è superbo e consunto splendore, l’antica genitura fra l’oro e i lapislazzuli dei mosaici; ciò che più del fenomeno estetico ci mostra ancora la tessera invisibile della bellezza, della sua credenza più vera e riposta: un’esistenza amara, struggente e voluttuosa quanto l’alba sorpresa tra i solchi d’un volto.

Sicilia

Quale cielo fiorito di leandri
e zagare e ginestre, in cui la sera
si sfarina di zolfo tra le nubi,
esala da una balza di nitore
su cinte di calcina, dai carrubi
barbicati sul suolo paglierino
sullo zoccolo frusto dei casali..
Vastità effusa lungo le pietraie
dilegua là, frammezzo alle lampare,
e col gozzo sul mare acceso d’indaco
un affresco vi assembra di scirocco,
Sicilia, e scintillare poi di rame
ancora sulle barche e le corazze
fiammee dei tuoi pupi. È questo il segreto
che dal suo chioccolio di fontanelle,
più mite alle piazze imprime quell’eco
di dolcezza, quell’attesa felice
di serbarsi nell’ombra delle case,
in un fruscio barocco di palazzi
inzaccherati d’oro dallo schiocco
africano dei tuoi venti? Ai giardini
s’incontra tra le frasche dei limoni,
accordo col cricchìo delle cicale,
accosto alle iraconde bocche in pietra,
alle finestre e alle gronde di rioni;
e mentre intreccia le tue voci nel manto
d’etra che piano scioglie, vesperale
si trasmuta, e incolora di pervinca
nei rami degli ulivi che s’ingemmano
di stelle. Ma è per la tua memoria,
inconfessabile, che assiduo il liuto
delle notti, tepore di vitalbe,
assieme a un contrappunto di chiarori
commosso vi si ode. Mentre consunto
lo stilo dell’esistere la forma
rintraccia, fra le ciglia bioccolute
dei marosi e i portali delle chiese,
e la procaccia più oltre, da latòmie
dove s’erpica il cappero e le cornute
foglie di fico, alle biche di sale
nelle lagune riarse di fatiche.

Sapere mai ceduto che i silenzi
fra gli asserpati vichi di paese
celano ove occhi antichi di fanciulle
inseguono, irreali, i suoi confini
graffiati sopra i sassi col nonnulla
dei loro salterelli. Così eccolo,
il tuo cielo, la luce che sui crini
degli asini, sui volti dei braccianti
impenetrabili, si vede intrisa
a ogni natura, indurire nei fini
acànti e capitelli diroccati;
la tua luce che sopra la tonnara
ormai deserta erode le carene
poco a poco, le tinge con la ruggine
dell’alba e vi inanella sui cordami
le perle delle rene, la caluggine
d’una musciara; torte, aguzze maglie
che soffocando il guizzo verdebruno,
già tombe e delle mani avari segni,
d’ostro ossidò la furia di mattanza;
ora follia tra le fughe d’inquieti
sgombri, ora una speranza tra i frangenti.

….
Il tuo cielo che avanza come fiori
sull’orlo degli occhi, dalla sua arsura
appena, queste rughe che ignori.