Le immagini di questo articolo sono Screenshot copyrighted del film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, catturati peronalmente in osservanza all’art. 70 comma 1 Legge 633/41, ai soli fini illustrativi dell’opera e per “uso di critica e discussione”
“Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! […] Ebbene navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e fantastica visione di bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito” (aforisma 124, Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1977, p. 162). E’ questa inquietudine silenziosa quella che in fondo assale la mente del calcolatore superevoluto alla guida della spedizione verso Giove. HAL nel suo funzionamento palesa al’improvviso un errore che emblematicamente è solo l’indicazione di un guasto che non c’è; il guasto (l’avaria dell’antenna) è la stessa difficoltà di comunicazione con il sistema di controllo a Terra intuita quale segnale dell’abisso di una distanza irriducibile alla comprensione: “HAL è in errore solo perché riproduce nella programmazione la mancanza di fondo che l’intelletto avverte in sé (mancanza di chi lo ha programmato). HAL sa di non sapere: il suo timore per il futuro della missione, per l’ignoto, è quello di chi sa che si troverà fuori dal suo spazio, fuori dalle sue possibilità di comprensione, fuori dai sistemi di comunicazione conosciuti” (E. Ghezzi, Stanley Kubrick, cit., p. 91)
L’occhio di HAL ed il suo controllo panoptico sull’astronave-mondo, sul “tutto” della ragione, sembrano incarnare lo stesso sguardo pan-oramico del theorein , così come la sua voce, soave e cortese ma rattenuta e priva sia di pathos che di “indizi sonori materializzanti” (la respirazione), ben corrisponde alla trascrizione del rimbalzo della voce – l’altrove da cui essa giunge – nella purezza incorporea dell’universalità logico-definitoria. Uno sguardo incapace di penetrare il nero, l’invisibilità, il differimento del Monolito (quello della scrittura nella produzione di un invisibile – il topos delle idee, la spiritualità del significato – che sia invece traducibile in un rimando ad hoc). Emblema dell’emergenza del pensiero quale luogo assente, traccia di tracce, nulla della propria pro-venienza e destinazione, il monolito assurge così a scabra oscurità divina, urna d’addii, avvento della ragione, congiunzione d’esizii: ecco allora il linguaggio, la cifra dell’uomo – l’osso (os-sum) della carcassa intuito come segno – sorgere dall’allarme indistinto della Notte, dal timore del suo ruggito ancestrale, e portare all’arma della mente. Questa sarebbe la violenza del logos (forse l’evoluzione come logos della violenza) mentre il monolito resta il piano liscio, Ur-ente e in-apprensibile dell’Ewige Wiederkunft des Gleichen: ritorna dai 4.000.000 tra-passati della geo-metria scimmiesca alla virtualità della stanza rococò nell’ultima parte del film. la sua immanenza scivola sullo spazio della temporalità e ne (rino)mina l’uni-verso…
Così l’impotenza dell’uomo si mostra tanto più evidente nel momento in cui, assistendo al duello fra Bowman ed Hal, si è proiettati nel suo/nostro cervello, per farlo detonare, “per constatare che questo centro è vuoto e che la voce non viene da alcun luogo preciso, così come i diversi occhi isolati di HAL non sono collegati a un occhio unico e centralizzatore. L’occhio rosso che declina e si spegne quando HAL è disattivato non è che uno fra i tanti. La sua coscienza è senza luogo, l’occhio di HAL è senza luogo” (M. Chion (tr. it. A. Grechi), Un’odissea del cinema. Il “2001” di Kubrick, Lindau, Torino 2000, p. 94)
Come ricorda Ghezzi, nel compimento dell’odissea la rossa pupilla del calcolatore diventa allora un occhio ciclopico, pronto a divorare l’equipaggio che ospita nella propria caverna (platonica), “ma Ulisse ‘deve’ ripercorrere l’entrata della caverna invece di uscire verso il mondo, perché anche il mondo è nella caverna, e qui Polifemo non è la bruta incultura ma il massimo di ‘cultura’” (E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema, Milano 1977, p. 93) . In un’intrepretazione nietzschiana di 2001 l’esigenza di affrontare HAL, monumento della ragione kantiana e dell’intelletto formalizzato, di ucciderlo disattivandolo, non può dunque che corrispondere a volere l’evento della “morte di Dio”[1]; l’astronauta Bow-man,”uomo arco”, profetico quanto il nome, biblico e michelangiolesco, David (come pure – nota ancora Ghezzi – denota accenti biblici HAL, Goliath della scienza e del sapere), deve mordere la testa del serpente decapitando le spire del computer, additando l’oltreuomo come il senso della terra: “In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia” (l’episodio “Alba dell’Uomo” racchiuderebbe dunque tanto quelle antropoidi che l’umanità paleo-futuribile del 2001). “Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare!” (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, p. 6 e 11). La corda-uomo vi è allora tesa come un cavo sull’abisso (lo spazio dell’odissea), fra la bestia (la scimmia antropomorfa) e l’oltreuomo situato oltre l’infinito (nome dell’ultima sezione del film), là dove l’enigmatico feto cosmico, dopo l’accelerato e vertiginoso invecchiamento di David, comparirà post mortem ancora con le sue fattezze (altro percorso, oltre a quello fra le apparizioni dei monoliti, leggibile come accoglimento dell’eterno ritorno) generandosi dalla placenta degli astri…
Ecco allora l’ultima sequenza del film ritornare circolarmente alla sua altra memorabile, all'”alba dell’Umanità” tracciandone il senso d’un’odissea (mai) cominciata dall’immagine dell’osso lanciato verso l’azzurro del cielo, in quella stupefacente ellisse spazio-temporale di quattro milioni di anni che lo proietterà nella notte interplanetaria del futuro. Un volteggio inchiodato al tempo senza presente di questa sequenza, condannata a ripetersi nell’intervallo di una trasmutazione, di un’altra morte/nascita che non passa mai, (già cinematografica: irripetibile perché ripetuta) eternamente destinata a mostrarci l’osso capriolare come le astronavi sulle note straussiane (non più dissociabili da queste immagini,) senza che nessuna gravità lo faccia ricadere: scagliato oltre l’infinito….
[1] Una disattivazione che rende la morte non verificabile; morire quale compito interminabile si mostra così come un’altra faccia dell’Eterno Ritorno. Ciò viene in fondo singolarmente testimoniato anche nel momento vacillante e imprecisato della morte di HAL, sospesa tra il fraseggio della sua voce trasognata e progressivamente assente – “My mind… is going” – e le sue “ultime parole”, una canzoncina memorizzata insegnatagli dal programmatore, che la versione italiana (grazie a una casuale intelligenza) ha reso con Girogirotondo, ribadendo così il regime della circolarità nel suo stesso trapasso