L’innocente congiura del tempo: oggi è domani
Inscenando a pieno il corrosivo gusto hitchockiano per i contrasti e la sua volontà di infrangere le visioni ordinarie (anzitutto quella sulla morte: “ne La congiura degli innocenti tolgo il melodramma dalla notte buia per riportarlo alla luce del giorno” affermò Hitchock del film), La congiura degli innocenti è indubbiamente nota per la sua paradossale commedia degli equivoci dal sapore vagamente shakespeariano (in un’atmosfera a tratti fiabesca che ricorda Sogno di una notte di mezza estate), per il suo umorismo macabro e grottesco, per il parossitico risvolto psicanalitico (i personaggi sono innocenti ma insistono nel ritenersi colpevoli), per la ripetitività di una narrazione priva di suspense ed ancorata piuttosto a un “cadavere assente” continuamente interrato e riesumato (“tutto l’umorismo del film nasce da un unico meccanismo, sempre lo stesso, una specie di flemma esagerata; si parla del cadavere come se si trattasse di un pacchetto di sigarette”, osservò in proposito Truffaut). D’altra parte non si sarebbe tentati d’interpretare la salma, esibita sin dall’inizio in un contrastante paesaggio lirico e luminoso, come lo stesso corpo del tempo dis-sepolto infaticabilmente dal (nel) cinema? In un film in cui non mancano dialoghi dal compiaciuto tono sofistico, appare allora quantomai stimolante soffermarsi su quello fra il pittore astrattista Mr. Marlowe (John Forsythe) e il piccolo Johnny, curiosamente focalizzato intorno alla bizzarra misurazione temporale del ragazzo (clicca qui per vedere la sequenza)
– Forse tornerò a vederla domani.
– E quand’è?
– Il giorno dopo oggi.
– E cioè ieri… Oggi è domani.
– Lo era.
– E ieri, quand’era domani, Signor Marlowe?
– Oggi.
– Oh, già: era ieri….
Fingiamo di considerare verosimile, e di darne quindi una spiegazione (prima di coglierne in definitiva la verità! sotto un altro rispetto) l’assurda deduzione del piccolo Johnny – la si passi al vaglio dell’attenzione nonostante essa appaia minata, col suo incipit dal sapore agostiniano (il futuro quale “presente aspettazione”), da una circolarità autoreferenziale, dalla cogitatio vocum di una definizione meramente implicita dei termini “ieri”, “oggi” e “domani” (in sostanza dall’equivoco metasemantico dei loro referenti). Quanto appare forse più disarmante di tale rinominazione è immediatamente, nelle prime battute del dialogo, la compresenza di due affermazioni contraddittorie: “oggi è domani” e “domani sarà ieri” (conseguenza quest’ultima della prima: “il giorno dopo oggi” è ieri). La tagliente espressione del bambino costringe a una interpretazione per la quale, nell’ambivalente sdoppiarsi del domani in “ieri” e “oggi”, a palesarsi – e come potrebbe non essere così, costretti nella ri-petizione del tempo – è il motivo del ritorno. Il ritorno e dunque la memoria (“domani sarà ieri”).
In proposito mi sovviene ed è opportuno richiamare quanto più di vent’anni or sono ebbi modo di apprendere dalle dispense di un seminario di filosofia teoretica; osservare cioè quanto intorno a tale argomento affermi Aristotele nel De anima: “la memoria non è né sensazione né pensiero ma uno stato o affezione di uno di questi, quando è trascorso del tempo”; lo Stagirita soggiungeva quindi che del presente nel presente non v’è ricordo, ma sensazione, del futuro aspettazione e del passato, naturalmente, memoria. Se ciò è esattamente quel che ritiene il senso comune, quando tuttavia si afferma che essa riguarderebbe il passato non ci si riferisce evidentemente a sensazioni o pensieri nel momento del loro accadere, giacché al tempo in cui sorsero erano appunto presenti e dunque percezioni; né la memoria potrebbe essere nel presente (rammemorante) ché in tal caso sarebbe un’affezione attuale e dunque di nuovo una percezione. Dove si trova allora la memoria? L’argomento di Aristotele consentirebbe di porla esclusivamente in quell’intervallo fra il passato e il presente, cioè nel diventare passato del presente, ovvero nel futuro, nel destino di passato a cui il presente risulta consegnato.
Ecco allora una prima possibile lettura e decrittazione del pensiero di Johnny: oggi – la lepre dell’oggi, l'”adesso” – sarà ieri – “passato” – solo domani, trascorso del tempo; quindi “oggi è già domani”, proiettato in tale passare, e al con-tempo “domani sarà (l’)ieri”, la memoria di oggi. La memoria si darebbe cioè solo nel futuro della percezione attuale, quando, consumato del tempo, essa diverrà passato. In questo modo si troverebbe perciò in un non-luogo, in una dimensione irrealizzata del tempo sempre di là da venire (solo nel domani vi sarà ieri), che la ricollegherebbe al significato arcaico di Mnemosyne quale dea profetica e sfuggente. Considerando tuttavia la seconda parte della bizzarra deduzione di Johnny, egli afferma altresì – qui sta la mise en abyme della sua definizione – che “ieri era oggi”.
Si aprirebbe allora un’altra via a questo inquietante crocicchio: o la memoria è solo del (nel) futuro, o il presente non è mai contemporaneo ma passato (“oggi” non è “oggi”, adesso, ma era “ieri”, prima; la lepre che Johnny tiene sulle spalle e vuole scambiare con Mr. Marlowe è infatti morta, tra-passata). Esso è già da sempre memoria, rinvio, rimando – lo insegnano, fra gli altri, Cartesio, Spinoza, Freud – come se le nostre percezioni non fossero altro che tracce senza origine (dove infatti collocare quest’ultima se non possiamo farne esperienza?); come se la conoscenza e il pensiero fossero sempre in ritardo sull’evento della presenza, mai simultanei alla beanza del reale (se asserirlo può apparire oscuro, tale conclusione non è d’altra parte dissimile da ciò che registra l’odierna neuropsicologia quando prova l’esistenza d’una memoria sensoriale, durevole qualche frazione infinitesima e legata ai processi percettivi, che ne costituirebbe un filtro inconscio precedente, selettivo proprio su di essi e sulla lettura della memoria “a breve termine”). Altrimenti detto la costituzione di un orizzonte di sintesi per la formazione del percepito risulterebbe il ritardo di una ri-scrittura, mentre la realtà stessa non potrà che dissolversi nella voragine di una memoria quale semiosi e ripetizione infinita: la Vita è sogno, e come quest’ultimo è solo una ricostruzione a posteriori. Non siamo mai stati contemporanei agli eventi: “ieri era oggi” (“prima”! era “l’adesso”), ma non ce ne siamo accorti (di essercene già accorti). La stramberia del piccolo Johnny, in cui già sembra proiettarsi l’ombra folle di Psyco, si tingerebbe allora di un’inquietudine nemmeno molto dissimile da quella dell’over-look, lo stravedere (to overlook) come emblematico sopra-vedere, che condanna Jack Torrence e gli altri personaggi di Shining (dominati dalle visioni che “subiscono”) alla deriva dei simulacri, a una visione della visione, alla scoperta della “realtà” come mera presenza allucinatoria e doppio antecedente: il rinvenimento del volto del protagonista in una fotografia risalente all’epoca in cui vissero, prima di lui, gli spettri che lo perseguitano. Di nuovo “oggi era ieri”, con tutto il suo orrore angosciante…
Una ripugnanza che ricordando quella suscitata dal pensiero nicciano dell’eterno ritorno (“Non ti rovesceresti a terra digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?”; da “La visione e l’enigma” in Also sprach Zarathustra), ci apre forse, proprio in forza di tale richiamo, l’esegesi più autentica delle parole di Johnny; quella che si verrebbe a iscrivere giustappunto sulla porta dell’Attimo sotto cui si ricongiungono i sentieri del passato e del futuro ne “La visone e l’enigma”.
“Oggi è domani perché ieri era oggi e domani sarà ieri”: nella terribile logica dell’eterno ritorno il passato è sempre di là da venire e il futuro è già sempre passato; l’interstizio è solo una falsa sembianza di presente…
αιων παις παιζων πεσσευων παιδος η βασιληιη
(Eraclito: “Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo”)