Di seguito, in attesa dell’anteprima, l’introduzione del volume di prossima uscita
Sisifo, Alcesti Narciso, tre gesti per destituire la morte, ovvero tre destini, tre movimenti in cui essa non pare trovare soluzione, sospesa come avvenimento che possa porvi un suggello; così è la pena dell’incessante ripetizione di Sisifo, l’insituabile sostituzione di Alcesti, l’amore e il languido estenuarsi di Narciso. L’accostamento delle loro interpretazioni risulta dunque circoscrivibile nello spazio d’una problematica che, seppure affrontata sotto un diverso riguardo per ognuno di essi, descrive anzitutto un intento comune all’esercizio filosofico-letterario intrapreso. Il volume raccoglie così due poemetti sulle figure di Sisifo e Narciso [1] e una produzione, in forma di teatro filosofico, relativa al mito di Alcesti; traendo spunto da alcune riflessioni di autori come Camus, Sartre e Blanchot, ne sviluppa una elaborazione tematica in forma saggistica e, parallelamente, l’autonoma produzione espressiva dei presenti lavori.
Precisandolo nei testi che li precedono, essi si caratterizzano o come il contrappunto a una diversa analisi del mito (il “Sisyphe heureux” camusiano), o come rilettura di motivi filosofici ad esso rapportabili (il tema dello sguardo e la correlata fenomenologia amorosa nelle pagine de L’être et le néant e nell’avventura di Narciso), o come una più fedele riproposizione in forma letteraria di aspetti del pensiero di Maurice Blanchot nel caso dello scritto relativo al personaggio di Alcesti (facendone in tal senso il contesto per rielaborare, quale tributo al grande filosofo e scrittore francese, alcuni luoghi e passaggi delle sue opere; un denso apparato di note consentirà di apprezzarne meglio il confronto e la proiezione in veste lirica).
Principalmente quest’ultima occasione si è quindi presentata quale ambito di enucleazione del tema del morire, sia come interrogativo imposto dal mito greco, sia quale motivo peculiare fra quelli della riflessione di Maurice Blanchot. L’inaudita e impensabile circostanza di morire al posto d’altri nella vicenda di Alcesti è parsa infatti rievocare la differenza blanchotiana fra la morte come possibilità e fatto, ed il morire quale morte anonima e immemorabile che non ci appartiene, sotto la cui minaccia si ritiene di dover vivere, aspettandola dall’avvenire, quando essa è piuttosto “l’inarrivée de ce qui advient”; una morte antica, che non accade né si riceve, di cui non può esservi appropriazione né decisione, che si delinea come la stessa oscurità della vita in cui non regna agire, pensiero né essere: “il morire è vivere, è la passività della vita, sfuggita a se stessa, confusa con il disastro di un tempo senza presente e che noi sopportiamo attendendo” (M. Blanchot, La scrittura del disastro, SE, Milano 1990, p. 35). È in questa attesa della sua ultima notte, in cui incontrerà le diverse figure della propria vita e lo stesso Thanatos, che si è pertanto collocata Alcesti, portatrice dello spossessamento d’una morte impersonale in cui, se Altri è al posto dell’io, si può allora effettivamente affermare che l’Altro sia in luogo di quello di Alcesti e che specularmente Alcesti muoia al posto di Amdeto: “noi moriamo con colui che muore, così come questi muore al posto nostro […] perché dividiamo con lui il ‘morire’, la perdita intransitiva, in un movimento di pura passività che la passione senza lacrime, talvolta, ha la pretesa d’incarnare” (Cfr. M. Blanchot, Il passo al di là, Marietti, Genova 1989, p. 83; corsivi miei. Qui si intrecciano d’altra parte anche la questione aperta dal “muoio per te” del passo euripideo – “θνηισκω υπερ σεθεν” – e il rovesciamento blanchotiano della responsabilità del morire “per altri”).
Tale gesto, racchiuso nella dimensione dell’incessante, dell’incompiuto e del ritorno (“morire è, in termini assoluti, l’imminenza incessante attraverso cui tuttavia la vita permane desiderando. Imminenza di ciò che è già sempre passato”; Cfr. M. Blanchot, La scrittura del disastro, SE, Milano 1990, p. 56), è apparso allora quale prisma attraverso cui indagare anche la replica della condanna di Sisifo, a sua volta leggibile in quanto strettamente connessa all’episodio che nel mito vede compiersi il sequestro della morte. Si è cioè immaginato che egli catturi il suo genio perché già assillato da un universo scorto quale mera proliferazione di riflessi e inseguirsi di simulacri, e che, arrestata la morte e il loro effimero durare, ritenga di poterlo così restituire a una sua pienezza d’essere. Come ricordato nel saggio introduttivo con tale atto si stringerebbe tuttavia, inesorabilmente, proprio a quanto vuole estinguere; imprigionandola si sposerebbe infatti all’ambigua realtà di ciò che per essenza è ripetizione senza termine – il morire quale compito inesauribile perché mai dato alla coscienza –, determinando da una parte la natura del supplizio giusto in forza del suo gesto, la sottrazione della morte, dall’altra mostrando come la sua coscienza, all’opposto di quella che eleva il Sisifo di Camus dalla propria sorte, sia invece la perfetta cornice per tale condanna. Proprio quest’ultima risulterebbe in altri termini il solo ambito per una possibile comprensione di sé.
Se dunque tanto Sisifo che Alcesti inscenano l’accoglimento d’un morire che esautora la morte quale evento verificabile (ambedue non possono che farlo all’infinito, il primo nella reiterazione della pena, la seconda nel mormorio che continuerà a testimoniarne il sacrificio nell’ombra delle fronde come nell’oscurità della vita), analogamente anche il mito di Narciso esibisce un’esteriorità, un inappagabile desiderio di riappropriazione, un’utopia di ricongiungimento e abolizione della distanza a cui nemmeno la morte potrà porre termine.
Anche Narciso appare esposto a un costante movimento di caduta, quello sul crinale sartriano dello “sguardo guardato”, in una continua trasformazione dell’altro – quindi, con un suo sprofondamento abissale, di se stesso – da soggetto a oggetto; nella sua vista catturata dal riflesso d’acque, egli rappresenterebbe dunque, in modo soltanto più vertiginoso, il medesimo destino esiziale dell’amore, inscenando su un’unica immagine quel che pure fra gli amanti è altrettanto paradossalmente rinviato dall’uno all’altro: non se stesso, non l’incompiutezza d’uno, ma l’ondivago inganno d’una dualità che diviene inconsistenza d’un rimando e d’uno sdoppiarsi senza termine. Se l’amore è cioè tale impossibile aspirazione al possesso e alla simultaneità del sentire, ecco allora Narciso consegnato all’infinito morire del proprio languore, sempre sull’orlo di uno specchio che, disperdendovi il suo labile “essere altro”, può subitaneamente incrinarsi sotto il semplice peso d’una lacrima; sempre innanzi alla mancanza di quell’autentico riconoscimento che sarebbe invece giusto la morte come vicinanza e prensione d’Altri a restituirgli. Consunto dall’inesauribile emorragia della propria brama si dovrà piuttosto riconoscere che anch’egli si esima dal morire, che muoia sì, ma della sua stessa immortalità, devoluta infine, solennemente, al profumo di un fiore e all’assiduo ritorno d’un’eco.
Roberto Valentini
[1] Il poemetto “La tomba di Narciso” viene qui ripubblicato, con l’aggiunta di un saggio, dopo la sua presentazione nella raccolta Il Male degli occhi. Si ringrazia PuntoacapoEditrice per la disponibilità.