Le immagini di questo articolo sono screenshots copyrighted del film Barry Lyndon di Stanley Kubrick, catturati peronalmente in osservanza all’art. 70 comma 1 Legge 633/41, ai soli fini illustrativi dell’opera e per “uso di critica e discussione”
Non v’è opera cinematografica più di Barry Lyndon che si presenti intrecciata alla ricerca e alla questione del nome, dalla didascalia iniziale sino alla sequenza conclusiva, quella che ci mostra una pallida e assente Lady Lyndon venire colta da un sospiroso turbamento, da un lampo di mestizia e ricordo, da un’amara interrogazione forse, mentre nell’atto di firmare le ricevute e gli ordini di pagamento, il nome di Barry le appare su uno di questi, riconsegnandola subito al crudele e rassegnato distacco della vita.
E’ la stessa sorte che – dall’irrintracciabile morte del padre nel duello appena scorto nella prima inquadratura – ancora più dolorosamente toccherà Ryan O’Neal e la sua vana ricerca del nome e del titolo; portandolo sino alla miseria e all’oblio che la voce narrante annuncia mentre la madre lo aiuta, ormai mutilato, a salire e scomparire in una carrozza. Come se in definitiva ciò che faticosamente, dopo una serie di falsi nomi e falsi titoli, egli raggiunge già suggellasse lo scacco della sua intera peripezia: “Barry Lyndon, in realtà due cognomi uniti che tagliano il ‘nome’. Un nome trovato che è invece un nome “inutile” e di pura finzione, poiché la firma valida che vediamo più volte, è quella di Lady Lindon” (E. Ghezzi, Paura e desiderio, Bompiani, Milano 1995, p. 44). Un nome tagliato in due dalla pallottola d’un altro duello come dal tempo che scinde/unisce il successo di Barry alla sua sventura e caduta in disgrazia (la stessa sarabanda di Händel che apre e conclude il film, ne riproduce il movimento di ascesa come precipizio); un nome che sigilla una vita, che appella e racchiude la sua durata in quella del cinema, che investe dunque direttamente il tempo e la Storia. Se infatti Barry Lyndon ci mostra la vita – seguendo il testo di Ghezzi – come un ingranaggio che tenta di autoregolarsi (con un personaggio portato a scegliere inesorabilmente quello che, nell’arcipelago del caso, il destino ha già vagliato per lui), egualmnte vi esibisce la Storia quale meccanismo di “Realtà Scena e Finzione”, o nel caso di Kubrick di “macchinismo” registico che schiaccia demiurgicamente il soggetto e lo depotenzia irrimediabilmente. E’ una concatenazione feroce che fa entrare i personaggi nei suoi quadri (così meravigliosamente pittorici) per metterli a morte, nota ancora Ghezzi; la sua cornice, la vicenda non sembra allora altro che lo sdipanarsi del nodo impeccabile, in un film sul ’700, fra casualità e necessità, lo sviluppo d’un’azione che sul suo filo disperde tanto l’esistenza individuale quanto l’amore, impossibile, tra le persone: “scompare l’amore, nella storia di Barry che insieme con mille altre storie si perde nella Storia, ma resta il dolore della sua assenza […] del suo sparire appunto nell’oblio della cronaca storica” (E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema, Milano 1977, p. 139).
Dove trovare dunque nell’unico film di Kubrick che rappresenta una intera esistenza questo nome del tempo: Barry, la vita di Barry? Dove collocarlo nell’economia temporale del film (questione d’altronde cruciale nel cinema: qual è il tempo riversato nella durata di un film e viceversa quanto potrebbe durare lo spazio filmico? [1]). Forse proprio nei tempi morti, quelli che intercorrono, nella sequenza stupenda dell’incontro e della repentina seduzione di Lady Lyndon, nei lunghi sguardi “che emergono dalle freddezza totale per comunicare quella che potè o potrà essere un’illusione d’amore o di felicità” (E. Ghezzi, Paura e desiderio, cit., p. 48); nel duello col figliastro, in quell’altro tempo morto antispettacolare (scandito dal lasso veristico del vomito di Lord Bullington) in cui tuttavia Barry, al crocevia di un’alternativa morale (uccidere o risparmiare la vita, come farà sparando a terra) è depositario del suo stesso destino; o ancora nell’ultima sequenza dove negli occhi tristi di lady Lindon intenta a firmare, sorvegliata dallo stesso Bullington, scorre l’intera evanescenza di una vita e con essa d’un mondo. Od infine in un tempo fuori dai margini dell’agire intrapreso e della presunzione di governarne gli eventi, uno scorrere che invece scivola e si posa sulle vicenda personale come il drappeggio insensibile della Storia, lo stesso anonimato ricordato dalla didascalia finale: “fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali”
Se l’anonimato non è infatti qualcosa che segue il nome ricusandolo, ma piuttosto la sua arbitrarietà che lo precede e lo accompagna, il nulla evocato dalla didascalia si presenta come un’epigrafe già scritta, l’indicazione di una neutralità onnipotente, di una morte che precede la vita; come se fosse necessario morire impersonalmente per avere la certezza di lasciare il fregio del proprio nome sul candore di una tomba assente, esattamente come la firma sul biancore di un foglio: “quando firmiamo, affermando la nostra identità, diveniamo responsabili ben al di là di quel segno, a tal punto che questa responsabilità ci ha da sempre messi in disparte, firmando per espropiarci, come un falsario che non si spacciasse per vero, ma facesse scoppiare il vero in falso. L’elemento in-signe: ciò che mai può comparire solo e che l’atto di firmare […] introduce di frodo, freddo clandestino [come l’errare di Barry, ndr] che non si lascia mai sorprendere, doppio anteriore, ombra senza luce, con la sola differenza che l’ombra si serve sempre di un chiarore per mostrarsi o sfuggire e sembra allora seguirlo” (M. Blanchot, Le pas au-delà, Gallimard, Paris 1973; Il passo al di là, Marietti, Genova 1989, p. 33).
Non è allora proprio Barry Lyndon (il film) tale “doppio anteriore”, il monumento insigne, la firma mancante di Barry? Ecco cos’è forse questo film, e cosa mette in scena: il baratro della vita sigillato nel nome, nella firma che si verga come l’arresto del tempo iscritto nella sentenza d’uno sguardo (arret de mort, nella duplice valenza del francese), come il destino privo di destino che ci cade addosso al pari della pallottola di un duello… L’infelicità che ferisce sempre l’altro in noi, mutilandolo fino a non poterne più nemmeno sopportare da sé il pensiero, se non nell’impietrito sguardo (la passività insostenibile della nostalgia di Lady Lindon) che quella firma istoria su un immemorabile ricordo: l’a-mor(te) d’un tempo…
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[1] “La censura principale che il cinema ha sempre subito è in effetti quella sulla rappresentabilità (più che di qualsiasi altra cosa fotografata) del tempo. Ed è essa il segno di tutte le paure (non solo ‘del’ capitale) che hanno ‘autocensurato’ il cinema dal sogno del ‘cinema total’ (cfr. Barjavel, Parigi 1944), mito della rappresentazione integrale e onnicomprensiva (tutti i sensi implicati, etc…). Per arrivare al paradosso del ‘cinema totale’ (chi è a produrlo, chi il burattinaio, chi il ‘creatore’; o il ‘savant fou’..) basta infatti lo sbrigliamento (anche puramente mentale: qui..) sul piano della durata, della lunghezza. Il ‘film di trent’anni’ – parlo sempre del filmteatro che ha bisogno di essere proiettato in un ‘teatro’ – ipotetico potrebbe essere ‘visto’ solo a patto di passare e impegnare in ciò trent’anni della propria vita; il ‘film di un secolo’ sarebbe matematicamente invisibile in rapporto a uno spettatore-soggetto isolato; il più bel reperto di cinema antropologico o ‘scientifico’, se troppo lungo, resterebbe letteralmente non consuntabile; le bobine della ‘storia del mondo’ potrebbero essere viste solo a pezzetti, per assaggi e tentativi qua e là (‘esploratori’ potrebbero perdere la vita tentando di arrivare ‘più in là’ nella ‘conoscenza’…)” (E. Ghezzi, Paura e desiderio, cit., p. 62.)